martedì 31 ottobre 2017

Take Me (I'm Yours): la mostra che rompe i tabù sulle opere d'arte



«Prendimi. Sono tuo». Non succede mai che visitando una mostra lo spettatore venga invitato a portarsi via gratuitamente un'opera d'arte. Né tanto meno a manometterla o crearne di nuove. E invece al Pirelli Hangar Bicocca dove inaugura oggi la mostra collettiva “Take Me (I'm Yours)” sì può fare. Anzi si deve, perché al visitatore viene chiesto di fare tutto quello che di norma è vietato in un museo: toccare, modificare, comprare, lasciare, scambiare e in molti casi portare via i lavori esposti, scardinando il “mito” dell'unicità dell'opera e mettendo in discussione i suoi modi di produzione. Da Yoko Ono a Francesco Vezzoli, da Maurizio Cattelan a Gianfranco Baruchello, da Ugo La Pietra a Luigi Ontani e Giorgio Andreotta Calò (tanto per citarne alcuni): 56 artisti hanno accettato di far parte del progetto ideato agli inizi degli anni Novanta da Hans Ulrich Olbrist e Christian Boltanski che ha come obiettivo quello di rompere i tabù legati all'arte e ripensare i modi in cui viene esposta e fruita. «Questa mostra va al di là dei confini dello spazio espositivo», ha spiegato Obrist. «continua nelle case dei collezionisti, si modifica ogni volta che un visitatore prende o lascia qualcosa. Questa mostra è la realizzazione pratica di quanto auspicato da William Morris quando parlava di “arte per tutti”».

venerdì 27 ottobre 2017

Dalla ligera al bel Renè: Milano e la mala

Il 27, oggi come allora, era giorno di paga e il blindato della Banca Popolare di Milano era carico di soldi più che mai. Alle 9,35 del mattino di quel freddo febbraio del 1958, in via Osoppo a Milano una banda di sette uomini con quattro veicoli rubati, grazie al falso incidente e uno speronamento per bloccare il portavalori, riuscì ad impossessarsi senza sparare nemmeno un colpo di 614 milioni di lire in contanti (pari a duemila anni di stipendio di un operaio dell'epoca). Una rapina perfetta, studiata a tavolino sul modello della "banda dei marsigliesi", che mise in ginocchio la polizia completamente impreparata a un evento di quella portata. «Ci sentivamo padroni di Milano, avevamo addosso una grande spavalderia. In fondo è stato meglio che ci abbiano preso altrimenti chissà dove saremmo arrivati», ha ricordato anni dopo uno dei rapinatori, Luciano De Maria.

sabato 21 ottobre 2017

Il bianco e nero di Salgado per raccontare l'inferno

Si sono accampate in galleria Meravigli fin dalle prime ore del mattino e alle 11,30, quando è iniziato l'incontro, ad ascoltare Sebastião Salgado c'erano oltre mille persone. Non ha voluto nessuna conferenza stampa, quello che aveva da dire sulla mostra Kuwait. Un deserto in fiamme che inaugurava alla Galleria Meravigli di Milano il maestro l'ha raccontato alle persone comuni, ai milanesi, giovani e meno, e ai turisti che non potevano lasciarsi sfuggire l'occasione di conoscerlo di persona.
Considerato uno dei più grandi fotografi del mondo, Salgado ha spiegato come l'incendio dei 600 pozzi di petrolio - ad opera dei soldati iracheni nel 1991 per ostacolare l'avanzata della coalizione militare guidata dagli statunitensi durante la Guerra del Golfo - sia stato l'episodio di inquinamento ambientale più grave di tutti i tempi ad opera dell' uomo, paragonabile a una vera e propria guerra. Lui era lì, tra i primi a intuire la reale portata e la gravità della situazione: in un paesaggio infernale che stava letteralmente bruciando davanti ai suoi occhi, iniziò a documentare quel disastro, seguendo l'operato dei vigili del fuoco (all'incontro era presente anche il pompiere Mike Miller che ha raccontanto la sua drammatica esperienza) e dei tecnici specializzati chiamati da tutto il mondo per limitare i danni e arginare le perdite. Nell’aria nera e calda di un cielo oscurato e saturo di anidride carbonica, di fronte a lui si levavano enormi colonne di fiamme e una coltre scura di petrolio copriva il deserto, le persone e le cose.  Il calore raggiunse tali temperature che uno dei suoi obiettivi si deformò. Sfidando il pericolo, lo stordimento, l'inquinamento e le alte temperature, Sebastião Salgado volle catturare i segni della devastazione e il sacrificio di centinaia di uomini.

Il risultato è un pugno nello stomaco: con 34 grandi immagini in bianco e nero esposte per la prima volta a livello internazionale Salgado racconta con luce apocalittica il contrasto dei pozzi in fiamme e la coltre scura di petrolio che copriva il deserto, le persone e le cose. Gli occhi increduli e stanchi dei vigili del fuoco, lo sforzo fisico nel cercare di domare le fiamme, il fumo divagante: nei ricordi e impressioni di Salgado, «era come affrontare la fine del mondo, un mondo intriso di nero e di morte».
La mostra - bellissima e potente - si può visitare fino al 28 gennaio 2018.


mercoledì 18 ottobre 2017

Toulouse-Lautrec, le foto proibite del genio di Montmartre

Toulouse-Lautrec non era un fotografo. Non esiste nulla che attesti che abbia mai posseduto una macchina fotografica, né che abbia mai scattato una fotografia. Eppure quel marchingegno che immortalava volti ed espressioni, gesti e attitudini, quell'invenzione che catapultò la bohème parigina degli anni 1880 nella modernità, fu fondamentale per la sua produzione artistica tanto quanto per il suo ego.
Discendente di una nobile ed antichissima famiglia francese, la vita di Henri de Toulouse-Lautrec (1864 -1901) fu segnata nell'adolescenza da due cadute che gli procurarono fratture ad entrambe le ginocchia. Non guarì mai del tutto: le sue gambe smisero di crescere e da adulto, pur non essendo affetto da vero nanismo, rimase alto solo 1,52 metri. «Il nano de la butte», «il genio deforme di Montmartre» lo chiamavano a Parigi e lui non potendo nascondere la sua evidente deformità fisica sfidava i tabù dell'epoca combattendo le ipocrisie e il perbenismo con ironia. Soprattutto verso se stesso.  Ecco allora che chiedeva ai suoi amici François Gauzi, Maurice Guibert o Paul Sescau di fotografarlo allestendo lui stesso messe in scene in cui si esibiva con un narcisismo scaturito dalla sua inesauribile immaginazione e dal suo sarcastico senso dell'umorismo. Si travestiva, inventava scenette nelle quali interpretava ruoli e coinvolgeva i suoi soldali in questi giochi e mascheramenti per affermare deliberatamente un certo esibizionismo e mostrare la sua stravaganza.

lunedì 9 ottobre 2017

#Felinghetti. Beat Generation, ribellione, poesia

Brescia, primavera del 2005. Un uomo anziano, barba ispida e poco curata, cappello calato sugli occhi si aggira per i vicoli del quartiere Carmine. Gira più volte intorno ad un palazzo, si ferma davanti al portone per leggere i nomi sul citofono. Bussa insistentemente ma non apre nessuno. Ad un certo punto si affaccia il portiere: quell’uomo coi capelli bianchi gli pare un barbone, lo insulta dandogli del «parassita», chiama la polizia. Che arriva poco dopo, lo identifica e lo ferma. «Poeta arrestato», titolano il giorno dopo i quotidiani locali. Quel poeta era Lawrence Ferlinghetti, il padre della Beat Generation, che quasi novantenne era tornato a Brescia per rimettere insieme i pezzi del suo passato a cominciare dal luogo dove era nato quel padre - emigrato giovanissimo negli Stati Uniti - che non aveva mai conosciuto e che neanche sapeva fosse italiano. Lo scoprì per caso quando a venti anni richiese il proprio certificato di nascita per arruolarsi volontario nella Marina yankee (partecipò allo sbarco in Normandia e sei settimane dopo lo sgancio della bomba atomica era a Nagasaki, cosa che gli provocò talmente tanto orrore da diventare «pacifista radicale»). Fu a quel punto che realizzò che il padre Carlo Leopoldo, morto prima della sua nascita, aveva anglicizzato il proprio cognome in Ferling per essere un autentico americano. Solo nel 1955 il poeta decise di prendere ufficialmente il vero cognome e di firmare con quello tutta la sua opera letteraria e artistica. Da quel momento in poi Ferlinghetti intraprese una lunga e tortuosa ricerca per scoprire le proprie origini. Che ha trovato appunto a Brescia.

venerdì 6 ottobre 2017

I gatti di Kuniyoshi, il visionario del mondo fluttuante


Era sempre circondato da gatti - a volte anche dieci - e a casa sua c'era addirittura un altarino dedicato ai suoi felini defunti con tanto di tavoletta funebre con il loro nome, come era prassi nella tradizione giapponese per ricordare i familiari passati all' altro mondo. E ancora: appena morì il suo amato gatto nero chiese al suo allievo Yoshimune di andare a chiamare il prete buddista affinché gli desse il nome postumo e celebrasse il funerale. Lui è Utagawa Kuniyoshi (1797-1861), uno degli ultimi e più interessanti artisti di ukiyoe (le xiilografie note in occidente anche come "stampe del mondo fluttuante") e pare che dipingesse con almeno un micino in grembo o infilato nel kimono.
Non stupisce quindi che gran parte della sua produzione artistica sia proprio dedicata agli adorati felini. Considerati un affascinante specchio dell'imprevedibilità della natura umana, erano loro ad offrirgli ispirazione per le sue opere e a personificare lo spirito tipico dell' abitante di Edo (oggi Tokio) della metà dell'Ottocento: spensierato e sempre alla ricerca di nuovi piaceri. Ecco allora i gatti che si trastullano nelle case da tè insieme a cortigiane micette dai sontuosi kimoni dai sontuosi, i gatti vestiti all' ultima moda che giocano a palla, gatti in relax nel centro benessere, gatti in amore. Ma anche gatti al lavoro come i portatori di lanterne con i loro tatuaggi o come samurai con la spada al fianco.

domenica 1 ottobre 2017

"Lettere dalla vagina", la mia intervista a Mona e Mae #FestivaldiInternazionale

Mona e Mae
Sembra assurdo, eppure ancora oggi le donne conoscono poco la propria sessualità con la terribile conseguenza che alcune di noi non sanno vivere il proprio corpo con consapevolezza e serenità. Assurdo e incredibile come, dopo anni e anni di discussioni e rivendicazioni, quanto poco se ne parli. Gli effetti sono catastrofici. Uno degli ultimi sondaggi sul tema, quello pubblicato recentemente sul Daily Mail, rivela che la maggioranza delle donne sia insoddisfatta della propria vita sessuale: una donna su 10 fa sesso al massimo una volta l’anno, mentre il 50% delle intervistate ha confessato di fare l’amore una volta al mese o anche meno. È un misero 10% poi che dichiara di avere rapporti sessuali almeno una volta a settimana. Soltanto il 17% infatti si dice invece appagata.
Percentuali frustranti che si giustificano - in parte - con la mancanza di conoscenza. Cosa alla quale hanno cercato di rimediare Mona Chalabi e Mae Ryan ideando e realizzando Vagina dispatches - Lettere dalla vagina, un documentario del Guardian in quattro puntate, che altro non è che un viaggio di esplorazione per rompere i tabù sul sesso femminile, parlando di anatomia, mestruazioni, orgasmo ed educazione sessuale. La serie ha riscosso un incredibile successo, tanto da essere nominata perfino ai premi Emmy 2017.