mercoledì 17 aprile 2019

Liu Bolin, l'uomo invisibile che accende i riflettori sulle contraddizioni del nostro mondo


Liu Bolin, la performance al Mudec

Ci sono degli animali che hanno sviluppato la capacità di rendersi invisibili agli occhi dei predatori. Altri sfruttano tale abilità per celarsi alle loro prede, sorprendendole poi all’improvviso. Si mimetizzano cioè come forma di difesa o per volontaria strategia di attacco. Poi c’è lo scultore, performer e fotografo cinese Liu Bolin che ha fatto del camouflage un’arte: difficile distinguerlo tra le architetture, le merci, le macerie, i rifiuti e i molteplici scenari del mondo nei quali sceglie di immergersi per diventare cosa tra le cose, per denunciare che tutti i luoghi, tutti gli oggetti, anche i più piccoli, hanno un’anima che li caratterizza e in cui mimetizzarsi, svanire, identificarsi nel Tutto. Ieri, nei depositi del Museo delle Culture di Milano Liu Bolin ha messo in scena la sua ultima performance in vista della mostra «Visible Invisible» prodotta da 24OreCultura che inaugura il 15 maggio 2019 con la curatela di Beatrice Benedetti.
Dopo aver scelto nei giorni scorsi, insieme ai sovraintendenti del Mudec, i preziosi manufatti della collezione permanente che hanno fatto da scenografia alla fotografia finale, ha dipinto insieme ai due assisitenti i suoi vestiti e le scarpe, i capelli e il corpo con un accurato body painting che lo ha perfettamente integrato e nascosto nella scena. Un lavoro lungo e impegnativo che prevede anche una grande preparazione fisica e mentale dovendo rimanere immobile per delle ore. Però poi il risultato è stupefacente: davvero difficile stanare l’artista in filigrana tra la bardatura da cavallo giapponese del periodo Edo, il vaso cinese del 18esimo secolo, le due maschere cerimoniali della Papua-Nuova Guinea e dell’Amazzonia, i pali e lo scudo della Papua Nuova Guinea del XX secolo appartenenti alla cultura Asmat, le coperte argentine del XX secolo. 

mercoledì 3 aprile 2019

Sheela Gowda porta l'India a Milano

C'è un'antica tradizione in India che spinge gli induisti di ogni casta a donare, almeno una volta nella vita, i propri capelli alle divinità in cambio di una risposta alle loro preghiere. E così ogni anno milioni di persone si mettono in cammino, da ogni parte del Paese, per raggiungere i templi del sud negli stati di Tamil Nadu e Andhra Pradesh in cerca di miracoli e buona sorte. Altri indiani li vendono per motivi economici, altri ancora li utilizzano come talismani. Sheela Gowda li adopera per creare opere d' arte. Come quelle esposte da oggi negli enormi spazi del Cubo all' interno del Pirelli Hangar Bicocca. Entrando si ha l' impressione di avere di fronte due gigantesche tele che ricordano il Quadrato Nero dipinto da Malevic nel 1915 e considerato da critici, storici, curatori e artisti come il "punto zero della pittura". Solo da vicino ci si rende conto che si tratta di una corda fatta da capelli intrecciati lunga 15 chilometri.