Brescia, primavera del 2005. Un uomo anziano, barba ispida e poco curata, cappello calato sugli occhi si aggira per i vicoli del quartiere Carmine. Gira più volte intorno ad un palazzo, si ferma davanti al portone per leggere i nomi sul citofono. Bussa insistentemente ma non apre nessuno. Ad un certo punto si affaccia il portiere: quell’uomo coi capelli bianchi gli pare un barbone, lo insulta dandogli del «parassita», chiama la polizia. Che arriva poco dopo, lo identifica e lo ferma. «Poeta arrestato», titolano il giorno dopo i quotidiani locali. Quel poeta era
Lawrence Ferlinghetti, il padre della Beat Generation, che quasi novantenne era tornato a Brescia per rimettere insieme i pezzi del suo passato a cominciare dal luogo dove era nato quel padre - emigrato giovanissimo negli Stati Uniti - che non aveva mai conosciuto e che neanche sapeva fosse italiano. Lo scoprì per caso quando a venti anni richiese il proprio certificato di nascita per arruolarsi volontario nella Marina yankee (partecipò allo sbarco in Normandia e sei settimane dopo lo sgancio della bomba atomica era a Nagasaki, cosa che gli provocò talmente tanto orrore da diventare «pacifista radicale»). Fu a quel punto che realizzò che il padre Carlo Leopoldo, morto prima della sua nascita, aveva anglicizzato il proprio cognome in Ferling per essere un autentico americano. Solo nel 1955 il poeta decise di prendere ufficialmente il vero cognome e di firmare con quello tutta la sua opera letteraria e artistica. Da quel momento in poi Ferlinghetti intraprese una lunga e tortuosa ricerca per scoprire le proprie origini. Che ha trovato appunto a Brescia.