Zehra Doğan, è un'artista curda, giornalista e femminsita, rinchiusa nelle carceri turche con l’accusa di propaganda terrorista per aver mostrato la violenza dell’esercito di Erdogan con una sua opera. Si trattava di un acquarello postato su Twitter tratto da una fotografia scattata da un soldato turco. Questo disegno digitale mostrava la città di Nusaybin distrutta dall’esercito nazionale nel giugno 2016 con le bandiere issate e trionfanti, e i blindati trasformati in scorpioni.
Dal luglio al dicembre 2016 è rimasta imprigionata in attesa del processo. A marzo 2017 è stata condannata a due anni e nove mesi di detenzione ed è rimasta in cella fino al febbraio 2019. Durante la sua prigionia, Banksy le ha dedicato un murale nella città di New York. Attivista femminista, tra i primi giornalisti internazionali ad avere raccolto le testimonianze delle donne Yazide scampate all’ISIS, Doğan dedica alla rappresentazione della donna la parte più vasta della propria produzione. Come ben documenta la mostra in corso al Museo di Santa Giulia di Brescia fino al 1° marzo “Avremo anche giorni migliori” (cura di Elettra Stamboulis).
I dipinti, quasi tutti disegnati su lenzuola, asciugamani o su fogli di giornale, raffigurano principalmente corpi delle compagne di lotta e di prigionia. Chiusa là dentro ha usato quello che aveva a disposizione per realizzare le opere: tintura di iodio, penne a sfera, bucce di melograno e sangue mestruale. "Un gesto fatto apposta, soprattutto perchè è qualcosa di cui di solito si ha disgusto", ha spiegato in una intervista a Zic.it. "Principalmente si ha disgusto della donna nel periodo mestruale, per la religione per esempio in quel momento non può fare niente, non può pregare né avere nessun rapporto con il campo religioso. Addirittura nella società ci diciamo in segreto di avere le mestruazioni: è qualcosa di cui vergognarsi e da tenere nascosto. Invece usandolo in questo modo, rendendolo evidente e utilizzandolo come materia del disegno ho voluto creare un rapporto pacifico con il sangue, che è poi il simbolo della vita. E’ stato quindi un gesto politico e volontario in questo senso per ridare dignità a qualcosa di cui di solito si ha disgusto”.
I lavori venivano poi consegnati a sua sorella nei momenti delle visite, fingendo davanti alle guardie che fossero indumenti da lavare, quando in realtà contenevano i suoi lavori.
Accanto alle immagini, anche brani del diario scritto durante la prigionia. Si tratta di riflessioni in cui Zehra Doğan più volte fa riferimento ad artisti che nel corso della storia hanno manifestato il proprio dissenso senza pagarne, almeno apparentemente, le conseguenze e a quegli artisti che invece si rifiutano di prendere una posizione. La mostra dà conto della necessità irrefrenabile di produrre e raccontare non tanto la propria, quanto l’altrui condizione con l’immagine e la parola.
A fine novembre ha messo in scena una performance in cui ha realizzato dal vivo il ritratto di Hevrin Khalaf, alla quale l’opera è dedicata. Hevrin Khalaf era la segretaria generale del Partito del Futuro siriano, attivista per i diritti delle donne e in prima linea per il riconoscimento dell’identità del popolo curdo, ed è stata uccisa il 12 ottobre 2019 da alcuni uomini appartenenti alle milizie mercenarie arabe che appoggiano l’offensiva turca. Le pagine del giornale utilizzate come supporto dell’opera sono dei giorni in cui la notizia dell’uccisione è stata diffusa dai media.
Zehra Doğan l’8 marzo del 2012 insieme ad alcune compagne ha fondato l'agenzia giornalista femminista Jinha per rompere il linguaggio e la retorica usata dai media principali per raccontare la violenza sulle donne. "Abbiamo cominciato a costruire un nuovo vocabolario e abbiamo lavorato in senso opposto rispetto ai titoli sensazionalistici" ha raccontato a Zic.it, "che non fanno altro che aumentare la violenza. Noi invece abbiamo cercato di indagare le cause di questi atti, è stato quindi un lavoro sia sul linguaggio che sulla narrazione, in quanto media di opposizione gestito e diretto da donne. Il nostro lavoro continua, soprattutto in Rojava, per dare voce alle donne che vivono nelle situazioni di guerra. L’agenzia l’hanno chiusa più volte ma l’abbiamo sempre riaperta. Jin News è il terzo nome che ha preso, ma siamo sempre noi”.
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