Ho cercato inutilmente il suo nome: nessun giornale che ha riportato la notizia, né le agenzie di stampa hanno dato un'identità al ragazzo di ventun anni che ieri si è tolto la vita nel carcere di Padova. Di lui si sa solo che era un marocchino e che si è tolto la vita impiccandosi con dei lacci di scarpe trovati chissà dove visto che dietro le sbarre sono vietati.
Per i media italiani è solo un caso, uno dei tanti, che si va a sommare alla drammatica lista di detenuti che hanno preferito morire piuttosto che vivere in strutture penitenziarie sovraffollate e obsolete, dove i diritti vengono calpestati e la dignità di ogni individuo ridotta a quella di un numero. Per i suoi compagni di cella, però, no.
La notizia della morte del loro amico si è diffusa immediatamente tra i detenuti ed è scoppiato il finimondo. Anche perché il ventunenne, finito in galera per possesso di hashish, era stato picchiato selvaggiamente dagli agenti della polizia penitenziaria la sera prima.
I primi segni di insofferenza l'hanno dimostrata sbattendo oggetti metallici contro le sbarre delle celle, poi la protesta è cresciuta rapidamente quando si sono rifiutati di rientrare dall’ora d’aria dando il via al braccio di ferro. Subito sono stati richiamati in servizio tutti gli agenti della polizia penitenziaria, anche quelli che avevano appena terminato il turno di lavoro. Sul posto è stato richiesto anche l’intervento del reparto Operativo dei carabinieri, oltre che della squadra mobile della questura e dei vigili del fuoco. Al parroco, padre Eraclio, è stato impedito di entrare per la complessità della situazione. Il timore era che si potesse scatenare una rivolta nei piani del carcere in cui i detenuti vengono rinchiusi in attesa del giudizio. Solo in tarda serata i 370 prigionieri hanno accettato di ritornare nelle celle (in nove all’interno di celle di 24 metri quadrati) di quel carcere dove non potrebbero esserne ospitati più di 98. (nop)
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