Ecco allora che alla Fondazione Carriero si analizzano le radici del pensiero di Giulio Paolini e della sua poetica che tende ad un’ideale di perfezione, ad una dimensione in un certo senso assoluta o utopica che può essere percepita come criptica, ma che in realtà - sottolinea il curatore Francesco Stocchi - è molto più semplice di quanto appaia. «Ideale», spiega il maestro Paolini, «è il non visto, qualcosa che si colloca nel punto di fuga di una rincorsa prospettica. Il traguardo è appunto idelae, limite oltre il quale non è dato procedere. Ma io resto fedele (vittima) di un Bello ideale, il solo capace di sollevarci dal baratro degli abbellimenti ad effetto». «L'arte», puntualizza, «è gioco capace di prevalere su ogni altra prospettiva di conoscenza, di annullare perfino lo stesso istinto di sopravvivenza: un gioco pericoloso in grado di porre il veto su ogni altra visione del mondo. Sì, è la Bellezza che ci guarda, non siamo noi a riconoscerla e a poterla osservare. Come tutto ciò che sfugge a ogni possibile considerazione o giudizio, il Bello ci provoca, difende il segreto della sua impenetrabilità».
Il percorso espositivo si snoda per nuclei tematici in cui Paolini, in veste di archeologo e studioso, analizza il proprio passato con una nuova consapevolezza. Accanto alle opere più conosciute come Senza Titolo (1961), Monogramma (1965), Nécessaire (1968); Controfigura (1981) e ai suoi famosi autoritratti ci sono tre nuove opere concepite per l’occasione.
Al piano terra si trova la sezione «Ritratto e Autoritratto», un tema che dagli inizi Paolini ha studiato fino ad arrivare alla sottrazione dell’autore nella sua opera. «Nella sua concezione», spiega Francesco Stocchi, «l'artista è estraneo al processo di creazione dell'opera d'arte: è assente. Non plasma la forma, non la crea, si limita a rivelarla: il suo lavoro è paragonabile a quello dell'archeologo che ricerca scavando attraverso il tempo. Si ritira dal luogo deputato alla rappresentazione delle immagini e attende la loro comparsa. Il ruolo dell'artista non è quindi connesso all'idea di produzione, ma a quello dell'incessante scoperta di ciò che già esiste e che lui rende manifesto. È l'opera a essere protagonista del palcoscenico, non il suo autore, che ha il solo privilegio di essere il primo testimone della sua apparizione nel silenzio privato dello studio».
Al primo piano si analizza il rapporto di Paolini con la prospettiva, declinata in tutti i suoi aspetti, dall’indagine sulla linea alla simbologia dell’orizzonte fino all’uso della specularità, della tautologia come strumenti di analisi dello spazio e del tempo. «La griglia prospettica e il rigore delle linee che la definiscono», spiega Francesco Stocchi, «aprono e chiudono le porte della rappresentazione dell'immagine rendendola verosimile ma distanziandola, allo stesso tempo, dallo spazio fisico circostante. Il punto di fuga proietta gli oggetti in una dimensione dove è possibile l'annullamento di pesi e misure. La prospettiva acquisisce un valore simbolico: è il passaggio attraverso il quale ogni elemento della composizione, mediante l'inquadratura, può essere percepito come pura rappresentazione».
Nella sala rococò della Fondazione Carriero troviamo i lavori che indagano il rapporto tra mito e classicità nell’universo concettuale dell’artista: la ricerca archeologica di Giulio Paolini trova la sua piena realizzazione nell'appropriazione di reperti classici, colonne, statue e gessi ridotti in frammenti costituiscono iconografia e fonte dell'artista. «Oggetti estrapolati dal loro contesto di appartenenza, sospesi nel tempo», spiega Stucchi, «offrono nuove prospettive di interpretazione del presente. Il classico, nella poetica paoliniana, è qualcosa che esiste al di là della visione che lo coglie, la percezione dell'opera è il suo limite, non la sua trasmissione di significato».
La mostra ospita anche gli interventi della scenografa Margherita Palli che si è confrontata con il tema del ritratto e autoritratto al piano terra – trasformando una delle sale della Fondazione in una Wunderkammer ispirata allo studiolo di Federico da Montefeltro – e con il tema della prospettiva al primo piano – riproducendo, in forma onirica su una superficie interamente disegnata a mano, i principi chiave del trattato sulla prospettiva dell’architetto e artista fiammingo Hans Vredeman de Vries, testo di riferimento nella poetica di Paolini.Si può visitare gratuitamente fino al 10 febbraio 2019
Nessun commento:
Posta un commento