sabato 10 novembre 2018

Pendulum, merci e persone in movimento #MAST

Helen Levitt

 Si guardano in faccia. Il linguaggio del corpo racconta di una lei in posizione dominante, con il sopracciglio alzato e una piega della bocca sarcastica. Lui, con le braccia conserte in segno di chiusura, sostiene comunque lo sguardo della signora. Forse la coppia aveva discusso, ma la fotografa Helen Levitt ha immortalato l’uomo e la donna, a loro insaputa (scattava con la macchina nascosta sotto l’impermeabile), seduti in un vagone della metropolitana di New York mentre in silenzio, con gli occhi, comunicano tra di loro. Era il 1975.
Jacqueline Hassink
Nel 2017 gli occhi dei passeggeri del metrò non comunicano con gli altri viaggiatori: sono chini su uno smartphone, troppo presi dall’oggetto elettronico per trasmettere il proprio stato d’animo a chi sta loro vicino. Gli scatti di Jacqueline Hassink, raccolti tra il 2010 e il 2017, documentano il voluto isolamento dei pendolari dei nostri giorni. Nella sua video installazione l’artista olandese dimostra come ognuno di loro - di noi - si muova verso la propria destinazione - il posto di lavoro, la scuola - e nello stesso tempo compia un perenne viaggio virtuale per il quale non è prevista alcuna fermata. 

L’evoluzione di questo cambiamento nel modo di viaggiare e sui mezzi con cui ci si sposta è uno dei temi che vengono affrontati dalla complessa e importante mostra in corso alla Fondazione Mast di  Bologna “Pendulum. Merci e persone in movimento”. Oltre 250 immagini storiche e contemporanee di 65 grandi autori da tutto il mondo – maestri di fama internazionale come Robert Doisneau, David Goldblatt, Helen Levitt, Mimmo Jodice e  Mario De Biasi insieme ai più giovani  Richard Mosse, Ulrich Geber e Sonja Braas – mettono a fuoco la genialità e l’energia che negli ultimi due secoli hanno spinto gli uomini a progettare mezzi e infrastrutture per muovere merci, persone e dati.

Ma la mostra, curata da Urs Stahel, propone soprattutto una riflessione a più voci sul tema della velocità che caratterizza la nostra società. Il pendolo del titolo, infatti, simboleggia il passare del tempo, con il suo oscillare, ma è anche sinonimo di cambiamenti improvvisi d’opinione, di convinzioni che si ribaltano nel loro esatto contrario. Evoca, inoltre, il traffico pendolare, intendendo i milioni di persone che la mattina presto raggiungono il lavoro nel centro delle città e la sera tornano stanche ai loro quartieri dormitorio (bellissime le foto cupe e scure di David Goldblatt che documentano la fatica di affrontare quattro ore di viaggio in autobus per recarsi al lavoro e lo sforzo ancora maggiore necessario a percorrere il tragitto inverso dopo un turno di dieci ore). Uomini e donne in viaggio, ma anche merci: il pendolo è simbolo di quel perenne scambio di roba, a fronte di altra roba, di denaro, di promesse. 

David Goldblatt 1983-84
«Maggiore è la distanza tra il luogo della produzione e quello della vendita e maggiore sarà in genere il profitto», spiega Urs Stahel. «E tra questi due punti fanno la spola gigantesche navi da carico che solcano le onde in un viavai continuo, città galleggianti fatte di container che, per il semplice fatto di coprire tratte tanto lunghe, trasformano il lavoro di sarti pagati 2 euro in abiti che ne costano 2.000. Se la merce è deperibile, si allestiscono rotte aeree e catene del freddo. E mentre è ancora in viaggio, si scommette in Borsa sul loro carico come se il mondo fosse un gioco, una corsa che pare non voler mai finire. È un ciclo ininterrotto, una gara cui partecipiamo tutti, gli uni realizzando profitti o subendo perdite, gli altri percorrendo tragitti lunghi e faticosi per recarsi al lavoro. In entrambi i casi, da decenni, si continua ad aumentare il ritmo e la velocità».  

Richard Mosse "Skaramaghas"
Ma, come spiega bene la mostra, alla forza prorompente dei motori, l'enorme accelerazione, i mezzi di trasporto trasformati in feticcio del nostro tempo, la connessione continua come imperativo assoluto fa da contraltare il rallentamento, la brusca frenata, il blocco dei flussi di persone che migrano, unica barriera al mito della mobilità globale. «Il solo fenomeno che ci spinge a rallentare il passo, a cercare persino di fermare tutto», puntualizza Stahel, «è quello delle migrazioni. Le uniche barriere esistenti sono quelle che frenano i perdenti locali e globali della modernità. Sappiamo infatti quanto forti siano il potere seduttivo della pubblicità e l'eco degli abusi del colonialismo e come la prospettiva di margini di guadagno riesca a imprimersi a fondo nella mente di tutti a qualsiasi latitudine». Emblematico il lavoro di Richard Mosse che associa il commercio globale alle migrazioni: nell'opera lunga sette metri dal titolo Skaramaghas centinaia di container occupano un'area portuale. Lungo il margine sinistro dell'immagine la sua termocamera, fotografa il trasporto di merci lungo le rotte mondiali; sulla destra gli stessi container sono impiegati come abitazioni per i migranti. Individui rimasti bloccati, persone che non possono andare avanti né tornare indietro e che temono di non ricevere il permesso per proseguire il viaggio e dover essere reimbarcate verso il paese d'origine. Un'unica immagine che condensa tutto il sistema.



Il pendolo, così come venne usato nel 1851 dal fisico Léon Foucault (riuscì a dimostrare la rotazione della Terra), racconta però anche il nostro ruotare senza posa su noi stessi, «una piroetta a velocità supersonica», puntualizza Stahel, «che finirà per conficcarci nel terreno o farci toccare il cielo».
La mostra al Mast di Bologna si può visitare fino al 13 gennaio 2019.

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