Autoritratto, 1953 |
Tata di mestiere, fotografa per vocazione, non abbandonava mai la macchina fotografica, scattando compulsivamente con la sua Rolleriflex per le vie di New York e Chicago. Ma lo faceva esclusivamente per sé, non ha mai fatto nulla per rendere pubblico il suo lavoro: le sue foto, qualcosa come 153mila scatti che ha tentato di conservare come il bene più prezioso, non sono mai state esposte o pubblicate e la maggior parte dei rullini non erano stati sviluppati. «Vivian Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina», scrive Marvin Heiferman nel catalogo edito da Contrasto, «e usò questo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita conservando però gelosamente le immagini che realizzava senza parlarne, condividerle o utilizzarle per comunicare con il prossimo».
Miss Maier (così la chiamavano i pargoli che accudiva), a tutti gli effetti protagonista della “street photography” americana, ritraeva le città dove viveva con uno sguardo curioso, attratto da piccoli dettagli, dai particolari, dalle imperfezioni, ma anche dai bambini, dagli anziani, dalla vita che scorreva davanti agli occhi per strada, dalla città e i suoi abitanti in un momento di fervido cambiamento sociale e culturale. Ecco allora le foto dei manovali sui tetti, gli adolescenti che guardano la televisione, la donna che si è addormentata nel parco, l’ubriaco seduto sul marciapiede, uomini d’affari che leggono sul tram. E ancora: le bizzarre acconciature delle signore, le scarpe in vetrina, le edicole, i capricci dei bimbi, i gesti furtivi degli amanti…
La mostra, che resterà aperta fino al 31 gennaio 2016, raccoglie 120 fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta insieme a una selezione di immagini a colori scattate negli anni Settanta. Tra queste un corpus consistente è rappresentato dai ritratti. «Quando ritrae persone del suo stesso status sociale o ai margini della società americana l’artista lo fa con occhio benevolo, quasi compassionevole», fa notare la curatrice Anne Morin. «Quando invece i protagonisti sono di rango superiore viene fuori la sua aggressività. Aggressività che le permette di immortalare l’arroganza dei soggetti scelti». Uno su tutti l’anziana signora impellicciata, con la veletta sugli occhi, che voltandosi la sorprende a fotografarla: sul suo volto il fastidio, il disappunto, il rimprovero. A distanza di anni i bambini che accudiva ricordano il senso di confusione che provavano mentre, in piedi accanto a lei, la vedevano scattare fotografie spesso senza neanche chiedere il permesso. «Ricordo che Inger le diceva “Miss Maier... la smetta”», ha raccontato Ginger Tam. «Era proprio imbarazzante». Ma non c’era nulla di voyeristico o morboso in quegli scatti, «piuttosto», spiega Heiferman, «fanno parte di un più ampio tentativo di comprendere la propria vita in rapporto a quella degli altri».
Di grandissimo interesse sono inoltre gli autoritratti: il suo sguardo austero riflesso nelle vetrine, nelle pozzanghere; la sua ombra lunga sull'asfalto o sulla sabbia dimostrano, come ha spiegato l'altra curatrice della mostra Alessandra Mauro, «la necessità di Vivian Maier di trovare il proprio posto nel mondo». Autoritratti che diventano per noi uno strumento eccezionale per avvicinarsi a questa misteriosa fotografa, finalmente «ritrovata».
(foto: © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York)
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