Nan Goldin e la sua Trixie |
Aveva solo undici
anni quando la sua adorata sorella Barbara si uccise sdraiandosi sui binari di
una ferrovia nei pressi di Washington. Era il 12 aprile 1965, sconvolta scappò
di casa diverse volte, e alla fine i genitori la diedero in affidamento. Fu una
tragedia che la segnò profondamente e che contribuì a fare di Nan Goldin la grande fotografa che tutto il mondo
conosce e apprezza come una delle maggiori esponenti di quell'arte che punta
all'identificazione completa con la propria vita.
«Ho iniziato a scattare
foto per via del suicidio di mia sorella», dice la Goldin. «L'avevo persa. Era
diventata un'ossessione, non volevo perdere mai più il ricordo di qualcuno». E
così fu. Dopo aver studiato fotografia a Boston, si trasferì a New York
documentando le serate, gli abusi, gli amori, le perdite, i dolori di cui i
suoi amici e lei stessa erano protagonisti: un immenso album di famiglia, un
diario visivo popolato da conoscenti e amanti, tossici, drag queen, donne
pestate.
"The ballad of sexual dependency" - il work in progress avviato agli inizi degli
anni Ottanta, riconosciuto tra i capolavori della storia della fotografia che
sarà esposto per la prima volta in Italia alla Triennale di Milano a partire
dal prossimo 19 settembre - nasce così. «È il diario che faccio leggere alle
persone», ha scritto Nan Goldin nella prefazione del progetto spiegando che «il
diario è una forma di controllo sulla mia vita. Mi permette di ricordare
ossessivamente ogni dettaglio». Lo sguardo di Nan Goldin abbraccia ogni momento
della propria quotidianità e del proprio vissuto. Quando sono davanti ai
soggetti non esiste la macchina fotografica, esiste una relazione , accetto le
cose così come sono non proietto niente di me stessa sui soggetti , non ho
pregiudizi , non ho aspettative», spiega in una intervista. «Ciò che mi spinge
a fotografarli sono i sentimenti che nutro nei loro confronti , amore,
rispetto, affetto, non devo farli sembrare qualcosa che loro non sono, ne
imprimere su di loro il mio segno».
La sua è una infatti fotografia istintiva,
incurante della bella forma, che va oltre l’apparenza, verso la profonda
intensità delle situazioni, senza mediazione alcuna: persone che sperimentano
l’ecstasy, il dolore provato attraverso il sesso e l’uso di droghe, la violenza
domestica, i segni dell’AIDS. Molte fotografie sono apparentemente rozze,
sfuocate, altre sono dotate di un equilibrio classico nei colori e nella
composizione, tutte sono misteriosamente potenti. Sono un pugno nello stomaco.
Colpiscono e non te le togli più dalla testa. Ed è proprio questo il suo
obiettivo: si aggrappano alla mente, come in cerca di salvezza, rifugio
dall’oblio.
L’installazione a Palazzo
dell’Arte, curata da François Hébel, è costituita da una scenografia ad
anfiteatro e che consente ai visitatori la visione dell’opera: circa 700
immagini a colori montate in sequenza filmica, per una durata di 45 minuti, e
accompagnate da una colonna sonora che spazia dal punk all’opera. Completano
l’esposizione materiali grafici e alcuni manifesti originali, utilizzati per le
prime performance di Nan Goldin nei pub newyorkesi.
La “ballata” della
Goldin non è infatti una semplice serie di immagini. La sua forma originaria è
ai limiti della performance. Su Vogue l’artista racconta che agli inizi degli
anni Ottanta iniziò a proiettare le foto sul muro per una questione pratica
e che nei primi slide show il pubblico
era praticamente costituito dai soggetti delle fotografie. Lei teneva il proiettore
nelle mani e se la lampadina si bruciava correva a casa a prenderne un’altra:
il pubblico aspettava. Dopo gli amici commentavano lo show e proponevano
modifiche e soundtrack. Fu a quel punto che il suo progetto cominciò a
delinearsi come una ballata: non solo perché si ispirava in parte a una canzone
dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, ma perché conteneva un ritmo,
un’andatura che veniva sperimentata a ogni proiezione con una colonna sonora
diversa che variava dai brani di Maria Callas ai Velvet Underground fino The
Tiger Lillies. Le parole e le emozioni trasmesse dalla musica si mescolavano,
e si mescolano tutt’ora, con quelle attivate dalle fotografie: il risultato è
film con sottotitoli che suggeriscono
storie, raccontano vite.
Nella totale
coincidenza del percorso artistico con le vicende di una biografia sofferta e
affascinante, Nan Goldin ha indubbiamente creato un genere: studiate,
utilizzate e imitate in tutto il mondo, le sue immagini sono un modello rimasto
intatto fino a oggi.
In Triennale fino al
26 novembre.
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