sabato 16 settembre 2017

“The ballad of sexual dependency", il diario-capolavoro di Nan Goldin #triennale



Nan Goldin e la sua Trixie

Aveva solo undici anni quando la sua adorata sorella Barbara si uccise sdraiandosi sui binari di una ferrovia nei pressi di Washington. Era il 12 aprile 1965, sconvolta scappò di casa diverse volte, e alla fine i genitori la diedero in affidamento. Fu una tragedia che la segnò profondamente e che contribuì a fare di Nan Goldin  la grande fotografa che tutto il mondo conosce e apprezza come una delle maggiori esponenti di quell'arte che punta all'identificazione completa con la propria vita.
«Ho iniziato a scattare foto per via del suicidio di mia sorella», dice la Goldin. «L'avevo persa. Era diventata un'ossessione, non volevo perdere mai più il ricordo di qualcuno». E così fu. Dopo aver studiato fotografia a Boston, si trasferì a New York documentando le serate, gli abusi, gli amori, le perdite, i dolori di cui i suoi amici e lei stessa erano protagonisti: un immenso album di famiglia, un diario visivo popolato da conoscenti e amanti, tossici, drag queen, donne pestate.

 "The ballad of sexual dependency" -  il work in progress avviato agli inizi degli anni Ottanta, riconosciuto tra i capolavori della storia della fotografia che sarà esposto per la prima volta in Italia alla Triennale di Milano a partire dal prossimo 19 settembre - nasce così. «È il diario che faccio leggere alle persone», ha scritto Nan Goldin nella prefazione del progetto spiegando che «il diario è una forma di controllo sulla mia vita. Mi permette di ricordare ossessivamente ogni dettaglio». Lo sguardo di Nan Goldin abbraccia ogni momento della propria quotidianità e del proprio vissuto. Quando sono davanti ai soggetti non esiste la macchina fotografica, esiste una relazione , accetto le cose così come sono non proietto niente di me stessa sui soggetti , non ho pregiudizi , non ho aspettative», spiega in una intervista. «Ciò che mi spinge a fotografarli sono i sentimenti che nutro nei loro confronti , amore, rispetto, affetto, non devo farli sembrare qualcosa che loro non sono, ne imprimere su di loro il mio segno».
 La sua è una infatti fotografia istintiva, incurante della bella forma, che va oltre l’apparenza, verso la profonda intensità delle situazioni, senza mediazione alcuna: persone che sperimentano l’ecstasy, il dolore provato attraverso il sesso e l’uso di droghe, la violenza domestica, i segni dell’AIDS. Molte fotografie sono apparentemente rozze, sfuocate, altre sono dotate di un equilibrio classico nei colori e nella composizione, tutte sono misteriosamente potenti. Sono un pugno nello stomaco. Colpiscono e non te le togli più dalla testa. Ed è proprio questo il suo obiettivo: si aggrappano alla mente, come in cerca di salvezza, rifugio dall’oblio.
L’installazione a Palazzo dell’Arte, curata da François Hébel, è costituita da una scenografia ad anfiteatro e che consente ai visitatori la visione dell’opera: circa 700 immagini a colori montate in sequenza filmica, per una durata di 45 minuti, e accompagnate da una colonna sonora che spazia dal punk all’opera. Completano l’esposizione materiali grafici e alcuni manifesti originali, utilizzati per le prime performance di Nan Goldin nei pub newyorkesi.
La “ballata” della Goldin non è infatti una semplice serie di immagini. La sua forma originaria è ai limiti della performance. Su Vogue l’artista racconta che agli inizi degli anni Ottanta iniziò a proiettare le foto sul muro per una questione pratica e  che nei primi slide show il pubblico era praticamente costituito dai soggetti delle fotografie. Lei teneva il proiettore nelle mani e se la lampadina si bruciava correva a casa a prenderne un’altra: il pubblico aspettava. Dopo gli amici commentavano lo show e proponevano modifiche e soundtrack. Fu a quel punto che il suo progetto cominciò a delinearsi come una ballata: non solo perché si ispirava in parte a una canzone dell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, ma perché conteneva un ritmo, un’andatura che veniva sperimentata a ogni proiezione con una colonna sonora diversa che variava dai brani di Maria Callas ai Velvet Underground fino The Tiger Lillies.  Le parole e le emozioni trasmesse dalla musica si mescolavano, e si mescolano tutt’ora, con quelle attivate dalle fotografie: il risultato è film con  sottotitoli che suggeriscono storie, raccontano vite. 
Nella totale coincidenza del percorso artistico con le vicende di una biografia sofferta e affascinante, Nan Goldin ha indubbiamente creato un genere: studiate, utilizzate e imitate in tutto il mondo, le sue immagini sono un modello rimasto intatto fino a oggi.
In Triennale fino al 26 novembre.

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