Compie ottant’anni a luglio e crea opere d’arte
usando l’iPad. David Hockney oltre a essere tra i massimi esponenti
dell'avanguardia anglosassone negli anni '60 del secolo scorso, è uno degli
artisti più popolari nel Regno Unito (il 17 novembre scorso Sotheby's ha
battuto la sua opera «Woldgate Woods, 24, 25 and 26 October 2006» a 11,7
milioni di dollari) e alla Tate Britain
di Londra è in corso la più vasta retrospettiva che gli sia stata mai dedicata
sinora. Organizzata con il Centre Pompidou di Parigi e il Met di New York, la
mostra riunisce i suoi lavori più significativi: dai primi «Love Painting»
(1960-61) con i quali ha sovvertito il linguaggio dell'Espressionismo astratto
in un'autobiografia omoerotica, alle
opere realizzate dopo il suo ritorno in California nel 2013 compresi i ritratti
di familiari, amici e di se stesso, come
«Self Portrait with Blue Guitar» 1977;
le sue iconiche immagini piscine di Los Angeles e ovviamente le opere
realizzate con l’app “Brushes” sul suo iPad che gli ha permesso, a suo dire, di
risolvere il problema della luce mutevole.
Utilizzando il suo dito come un pennello intinto nei colori virtuale,
David Hockney crea paesaggi – alcuni dei quali prodotti en plein air, come gli impressionisti –
ritratti, vedute poi stampa le opere con pigmenti veri usando stampanti
speciali. «L'arte deve capire la tecnologia, farla propria», ha
spiegato recentemente il maestro. «La tecnologia ha sempre cambiato il senso
delle immagini e le immagini sono il potere. Se l'arte fa a meno delle
immagini, perde ogni possibilità, ogni potere. Ho cominciato prima a dipingere
con l'iPhone. Poi, nel 2010, ho subito preso l'iPad in California. In
Inghilterra non ce l'aveva nessuno. Per realizzare un dipinto con
l'applicazione Brushes impiego un'ora. Con l'iPad non hai bisogno di nient’altro:
hai tutti i colori sempre con te. Il risultato è diverso rispetto a quello
della pittura vera. Ma una cosa non esclude l'altra».
Incisore, disegnatore e ritrattista, nonché
fotografo ed autore di alcuni collage fotografici realizzati con le Polaroid ,
Hockney usa nuove tecniche per testare
se stesso ma anche per costringere chi guarda i suoi quadri a considerare ciò
che è tradizionale in modo innovativo e contemporaneo. La sua è una sfida nei
confronti della maniera occidentale di rappresentare il mondo: con uno stile
apparentemente semplice, Hockney ostenta
la spensierata atmosfera californiana tra ville lussuose, piscine assolate e
giardini disciplinati; puntando su una palette vitaminica, fissa su tela un
istante che diventa eterno; così la piacevole vita di Hollywood si trasforma in
natura morta.
Vulcanico artista senza
timori, pronto a sperimentare e a trattare temi come l'omosessualità che
all’epoca era ancora illegale in Gran Bretagna,
Hockney si è sempre interrogato su cosa rende interessante dei segni su
una superficie piatta. Ma anche come condensare il tempo e lo spazio in
un'immagine statica, su una tela o su uno schermo. Del resto, sostiene Hockney, creare un’immagine è l'unico
modo che abbiamo a disposizione per dar conto di ciò vediamo. I risultati
vengono spesso catalogati come pitture, fotografi e o film, per poi essere
ordinati secondo epoche e stili. Ma di fatto, che siano prodotti con un
pennello, un apparecchio fotografico o un programma digitale, che siano sulle
pareti di una caverna o sullo schermo di un computer, per l’artista inglese
sono innanzitutto delle immagini.
E proprio alle immagini è dedicato l’ultima fatica
letteraria di Hockney. Per i tipi Einaudi è infatti appena uscito il libro “Una
storia delle immagini” (pagine 350, € 65)
scritto in collaborazione con il critico Martin Gayford: un volume di grande
formato nel quale, con l’ausilio di un vasto apparato iconografico, i due
autori - scambiando opinioni, ponendosi
domande e cercando risposte - costruiscono un percorso che non procede
in modo lineare, ma con continui rimandi a epoche, autori e tecniche espressive
diverse ricercano dei legami e delle interazioni tra tutte le forme di
rappresentazione bidimensionale della realtà. Non importa se fatta in punta di
pennello o dall’occhio di una telecamera di sorveglianza: c’è un filo rosso che
unisce il «Toro» delle grotte di Lascaux in Francia (15000 prima dell’era
cristiana) alla «Civetta» di Picasso (1952), un fotogramma di «Metropolis» di
Fritz Lang (1927) alla «Torre di Babele» di Bruegel il vecchio (1565), lo
sguardo della «Gioconda» (1503-1519 circa) e quello di Marlene Dietrich in un
celebre ritratto fotografico del 1937; un cartone animato di Disney con una
stampa di Hiroshige, una scena di un film di Ejzenštejn con un dipinto di Velázquez.
Hockney e Gayford sostengono che fotografia, film, pittura
e disegno sono sempre infatti profondamente connessi gli uni con gli altri e che
ogni immagine, selfie compresi , ha una sua dignità, in quanto espressione
dello sguardo con il quale l’autore vede, idealizza, cerca di comprendere ed
esprimere le persone e l’ambiente che lo circondano. «La storia delle immagini», scrive
Hockney nel volume, <comincia nelle caverne e termina, per ora, con l’iPad.
Chi sa come continuerà? Ma una cosa è certa, il problema dell’immagine sarà
sempre presente: la sfida di descrivere il mondo in due dimensioni è un
problema costante. Voglio dire: non lo risolveremo mai».
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