A centosei anni Gillo Dorfles inaugura in Triennale la sua
ultima mostra. Alle 11 in punto, il 12 gennaio scorso, era già
a Palazzo dell’Arte a Milano, mentre gli addetti all’allestimento montavano gli
ultimi pezzi in vista del vernissage della sera. «Sono molto soddisfatto
dell'allestimento. Non potevo chiedere di meglio. La parete arancione poi...
Bella», commenta mentre passa in rassegna le sue creazioni. Lui - maestro
dell’Estetica italiana, critico d’arte, pittore e filosofo - espone per la
prima volta i disegni dedicati a “Vitriol”, un personaggio da lui inventato nel
2010: una figura senza forme, inquietante e enigmatica, dagli occhi accesi,
penetranti, ipnotici che scrutano e incantano chi guarda. In mezzo, attorno,
sopra ci sono citazioni in tedesco, oltre a diverse parole e numeri che
sembrano codici da decifrare.
Maestro chi è Vetriol?
«Io sono l’inventore di Vitriol, ma in quanto personaggio
inventato gli si può attribuire qualsiasi qualità. È un personaggio ambiguo.
Ognuno cerchi il suo Vitriol, la ricerca in campo artistico non può finire
mai».
Vitriol è uno degli acronimi più utilizzati dagli alchimisti.
Le iniziali stanno per “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum
Lapidem”, ovvero “Visita l’interno della terra e, con successive purificazioni,
troverai la pietra nascosta”. Lei quella pietra l’ha trovata?
«La ricerca della Pietra filosofale è quella del mistero che
sta alla base della vita. La mia è una pietra piccola, poco pesante».
Nato a Trieste nell’allora Austria-Ungheria, ha studiato e
insegnato a Milano, dove tutt’ora vive. Le piace la città così come è diventata
con tutti questi grattacieli?
«La trasformazione di Milano non è cosa da poco. È una delle
città più importanti per quanto riguarda l’industria, la letteratura, le arti
visive. Ma...».
Ma?
«Io preferivo la Milano senza grattacieli, quella dei
boschetti e dei giardini. Certo c’era
il grattacielo di Gio Ponti, c’era Torre Velasca, ma quelli erano belli e
funzionali».
Non ci sono più i boschetti, ma c’è il Bosco verticale di
Boeri...
«Lì l’elemento vegetale rischia di snaturare l’opera. E comunque Milano ha avuto grandi architetti
ma mai grandi urbanisti con il risultato che c’è una miscela di bello e brutto, anche nelle stesse vie».
La trasformazione di Milano in città cosmopolita era inevitabile, però.
«Vero, ma a me piaceva quando Milano era ancora lombarda, quando si parlava il dialetto. Il mio primo ricordo della città risale all’infanzia, quando venivamo a trovare la mia bisnonna che era proprietaria del palazzo a Porta Venezia con le quattro colonne. Tutti parlavano milanese: se volevi farti capire dovevi imparare e io ho imparato».
Nel 1968 ha pubblicato il libro “Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto”, una serie di approfondimenti teorici che hanno aiutato a descrivere il concetto di kitsch in tutte le sue articolazioni e l’evoluzione del “cattivo gusto” dell’arte moderna. Ci ha messo anche il Mosé di Michelangelo, la Gioconda di Leonardo…
«Sono divenuti emblemi kitsch perché ormai vengono riprodotti trivialmente e conosciuti, non per i loro autentici valori, ma per il surrogato sentimentale o tecnico dei loro valori».
Celebre il suo aforisma: «L'arte non finisce mai, è che le opere stupide adesso sono troppe».
«Come ho scritto, l’industrializzazione culturale estesa al mondo delle immagini artistiche ha condotto con sé un’esasperazione delle tradizionali distinzioni tra i diversi strati socio-culturali. La cultura di massa è venuta ad acquistare dei caratteri assai diversi - almeno apparentemente - dalla cultura d’élite, e ha reso assai più ubiquitario e trionfante il kitsch dell’arte stessa».
Il tempo concessomi per l’intervista è scaduto, ma c’è ancora qualche minuto per un regalo. Prima di congedarmi il maestro ha scritto una dedica e il mio nome all’interno di un Vitriol e me lo ha donato. Lascio il Palazzo della Triennale commossa. Grazie.
La trasformazione di Milano in città cosmopolita era inevitabile, però.
«Vero, ma a me piaceva quando Milano era ancora lombarda, quando si parlava il dialetto. Il mio primo ricordo della città risale all’infanzia, quando venivamo a trovare la mia bisnonna che era proprietaria del palazzo a Porta Venezia con le quattro colonne. Tutti parlavano milanese: se volevi farti capire dovevi imparare e io ho imparato».
Nel 1968 ha pubblicato il libro “Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto”, una serie di approfondimenti teorici che hanno aiutato a descrivere il concetto di kitsch in tutte le sue articolazioni e l’evoluzione del “cattivo gusto” dell’arte moderna. Ci ha messo anche il Mosé di Michelangelo, la Gioconda di Leonardo…
«Sono divenuti emblemi kitsch perché ormai vengono riprodotti trivialmente e conosciuti, non per i loro autentici valori, ma per il surrogato sentimentale o tecnico dei loro valori».
Celebre il suo aforisma: «L'arte non finisce mai, è che le opere stupide adesso sono troppe».
«Come ho scritto, l’industrializzazione culturale estesa al mondo delle immagini artistiche ha condotto con sé un’esasperazione delle tradizionali distinzioni tra i diversi strati socio-culturali. La cultura di massa è venuta ad acquistare dei caratteri assai diversi - almeno apparentemente - dalla cultura d’élite, e ha reso assai più ubiquitario e trionfante il kitsch dell’arte stessa».
Il tempo concessomi per l’intervista è scaduto, ma c’è ancora qualche minuto per un regalo. Prima di congedarmi il maestro ha scritto una dedica e il mio nome all’interno di un Vitriol e me lo ha donato. Lascio il Palazzo della Triennale commossa. Grazie.
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