Eccolo.
A Milano lo scorso fine settimana si è svolto a Zam la LadyFest, una tregiorni di performance, spettacoli, laboratori, concerti dedicati al femminismo, al mondo queer e trans. Partecipando al laboratorio di Slavina sui micromaschilismi mi è stata posta una domanda alla quale non ho risposto, ma sulla quale ho riflettuto molto, anche nei giorni successivi. La domanda era: “Quando ti sei accordo di essere maschio e di poter godere di alcuni privilegi rispetto alle donne”?
Non ho risposto perché non lo ricordo. Non ricordo quando presi per la prima volta coscienza di essere maschio, né quando mi resi conto avere dei privilegi. Come del resto non ricordo gran parte dell’infanzia. Non saprei dire chi a casa, finito di mangiare, si alzava e sparecchiava. Non ho memoria dei pranzi, né delle cene. Sono sicurissimo che fosse mia madre, ma se mi viene chiesta un’immagine precisa, un dettaglio di quell’atto, non so rispondere.
Non ricordo, o forse semplicemente mi impedisco di rievocare molte cose, forse troppe.
Altre invece me le ho ben chiare. Le ho tirate fuori, piano piano. Lavorando su di me, sulle mie paure, sui miei comportamenti, sui miei tanti errori. Ma le ho tirare fuori.
Non mi ero mai fermato a rintracciare nella memoria il momento in cui ho scoperto i privilegi dell’essere un ‘maschietto’ in una società sessista. Di certo ho ben chiaro, episodio dopo episodio, quanto fu crudele l’impatto avuto nel capire di appartenere ad un genere, quello maschile, responsabile di tanta violenza che esplodeva in mille modi differenti verso chi a non apparteneva al suo mondo, verso i ‘non omologati’, verso chi rifiutava lo status di maschio.
Ricordo mia madre che piangeva, la ricordo nei litigi con mio padre. I singhiozzi di lei in camera da letto che risuonavano per la casa.
Non che fosse un violento mio padre, almeno non nell’accezione fisica del termine. Non alzava le mani, ma non serve alzare le mani per provocare dolore e paura, non serve alzare le mani per avere atteggiamenti violenti. Questo l’ho imparato presto.
Fra i tanti pianti di lei, uno è indelebile nella mia mente, lo rivedo oggi come se fosse appena accaduto. Avrò avuto 5-6 anni. Ricordo una via alberata vicino casa, è pomeriggio, c’è il sole, è estate, domenica. Stavamo tornando dal parco. La città è deserta. Roma deserta come lo è nelle domeniche d’estate.
Mi tiene per la mano, mentre io cammino guardando gli alberi. Mi incanto nel vedere le foglie. Ma lei mi tira, continua a tirarmi per il braccio, dicendomi di andare.
La osservo, non mi sembra arrabbiata, eppure piange. Mi parla come per rassicurarmi che non sta succedendo niente, e piange.
E’ in quel momento che vedo la macchina che ci si affianca.
E’ un po’ che ci viene dietro. Dal finestrino vedo un uomo, grosso, pelato, con una mano guida l’altro braccio appoggiato sul finestrino. Ha camicia, le maniche tirate su.
Ci segue, parla con mia madre, non riesco a ricordare le sue parole. Mia madre non lo guarda, fa finta che non ci sia, non si volta, continua a camminare, mi tira, ma piange.
Lui non se ne va, continua a parlare ed io continuo a non ricordare le sue parole.
Io non l’ho mai visto e sono sicuro che nemmeno mia madre l’ha mai visto.
Ma so bene che è lui la causa di quel pianto.
Il mio ricordo finisce lì, con quel senso di rabbia e impotenza incastrato in quel corpo di 6 anni.
Nulla di drammatico certo, un semplice maschio a caccia della sua preda femmina, uno dei tanti che avrei conosciuto: uno di quelli che un sì è un sì (ma non deve essere troppo veloce altrimenti è una puttana che non ti devi sposare) e un no è lo stesso un si (perché tanto si sa che le donne sono così). Uno di quelli che ‘come scopo io nessuno’, di quelli ‘che come gioco io a pallone nessuno’ di quelli ‘che come picchio io nessuno’. Quelli che sei donna provo a portarti a letto altrimenti che uomo sarei. Quelli che ‘se mi dici no sei una troia’, ‘se mi dici sì pure tranne se poi ci fidanziamo, allora sei santa’, pronta a ridiventare ‘troia appena mi lasci’.
Quelli li, quelli che conoscete anche voi. E non sto parlando di chissà quale mostri, li trovate tra i nostri padri, tra i nostri figli, tra i nostri mariti o tra i tanti amici e compagni di cui ci circondiamo.
La mia infanzia è stata caratterizzata da un evento, un incidente. Avevo quattro anni, mia madre, mia sorella ed io attraversavamo sulle strisce, una macchina ci investì. Mia madre accortasi del pericolo spinse mia sorella in avanti, facendola cadere ma fuori della portata dell’auto che arrivava.
Nel mentre riuscì a sollevarmi per un braccio, ma non fece in tempo, ero dalla parte sbaglia e fui il primo che la macchina prese.
Feci un volo di quindici metri andando poi a finire sotto una macchina parcheggiata. I soccorritori dovettero cercarmi parecchio perché nessuno si era reso conto di dove l’impatto mi aveva scaraventato.
Mi ruppi il femore ed entrai in coma.
Cinque ragazzi, figli di papà, giocavano al pilota per le strade della città. Scapparono dopo l’incidente. Un tassista che aveva visto la scena gli corse dietro e riusci a bloccare la loro macchina. Uscii dal coma ero uscito, ma la lesione al cervello era rimasta, e solo il tempo avrebbe potuto chiarire se e quali danni quell’incidente aveva causato.
Racconto questo per dire che la mia infanzia fu cosi molto ovattata. Sono cresciuto in un ambiente protetto, magari necessario, ma che poco mi preparava a quella che era la realtà del mondo lì fuori.
In seconda media cambiammo casa e quindi scuola. Ricordo il primo giorno, eravamo lì in attesa di entrare, due miei coetanei davanti a me stavano prendendosi a parolacce per decidere chi era il più forte. Domandai perché litigano, fui colpito allo stomaco con un cazzotto e finii per terra. Non sapevo nemmeno cosa fosse un cazzotto.
Passano i giorni, passano gli anni. Hai il naso lungo quindi sei “pinocchio”, non sai giocare a pallone quindi sei una “pippa” e nessuno ti sceglie in squadra, se c’è un ‘amico’ magari ti sceglie e ti mette in porta, con la faccia di già sa che quella partita è persa.
“E non fai quello e non fai questo” allora vuol dire che hai “paura” che sei una “femminuccia” che sei un ‘tira seghe’. Parte uno e tutti dietro in coro. E tu non puoi dire nulla. Dovresti accettare e basta altrimenti sai come finisce.
Però io non piango. La rabbia del pianto di mia madre è ancora li, e questa violenza, queste prese in giro, quest’inutile sadico gioco del volermi mettere in mezzo non mi fa stare zitto. La paura è tanta, ma la paura è l’anticamera del coraggio. E in tanta paura riesco a trovare tanto coraggio. Non sto zitto, non mi piego, ma finisco sempre con la faccia a terra, sono sempre di più di me, sono sempre più forti.
Ho dodici anni, sto legando la mia bicicletta al lampione davanti al cinema. Quei vecchi cinema di paese, che la domenica d’estate facevano lo spettacolo pomeridiano alle due del pomeriggio. Primo spettacolo alle 2 secondo alle 17.30.
Sto lì con un amichetto, conosciuto in quel posto di villeggiatura in Toscana, anche lui romano, anche lui in vacanza con la famiglia.
Stiamo aspettando che il cinema apra, siamo arrivati un po’ prima, è appena passata l’una e mezza, ancora il paese sta a tavola.
Vedo arrivare tre ragazzi, li riconosco di vista, sono del posto, sono più grandi di noi, quindici sedici anni. Dentro di me spero che passino oltre anche se so che non sarà cosi.
Ci vedono, ci fermano, iniziano con la solita trafila di prese in giro e di minacce. Oggi sono in forma o semplicemente non hanno di meglio da fare. Per un momento si disinteressano di me, si accaniscono sul mio amico. Iniziano a smontagli pezzo per pezzo la bicicletta, sotto la minaccia di riempirlo di botte.
Lui non reagisce, non dice nulla, li lascia fare e in fondo a anche ragione, gli smontano la bici ma nulla più, sono soddisfatti di averlo piegato al loro volere.
Poi si accorgono di me.
Si avvicinano e vanno per prendermi la bicicletta. Sono terrorizzato, così tanto da non rendermi conto che le parole già mi sono uscite di bocca: “No, la mia bici non la toccate”. Non ho nè il fisico nè l’aspetto di uno che secondo i loro ‘codici’ può permettersi di rispondere così. Un ‘tira seghe’ se risponde paga pegno cosi s’impara a stare al suo posto.
Cominciano a minacciare, cominciano a spingere, io spingo a mia volta, come reazione istintiva. Iniziano a colpirmi in tre. Sono per terra, loro in piedi che ridono, li sento urlare che mi devono dare una lezione, li sento dire portiamolo “di là”. Mi prendono due per le braccia e uno per i piedi. Mi sollevano e cominciano a camminare.
Dentro di me il terrore sale, ‘di là’ ci sono i bagni pubblici, mi stanno trascinando nei bagni, siamo nel vicolo, vedo l’entrata. Capisco che se mi portano lì dentro sono perduto, nessuno vedrà cosa mi faranno, nessuno potrà aiutarmi, capisco lì dentro non devo farmici portare.
Comincio a divincolarmi con tutta la forza che, ho paura, tanta paura, ma più ho paura più scalcio. Quello che mi teneva i piedi perde la presa. Ora sono in terra, ho i piedi liberi e mi svincolo ancora di più. Tiro, tiro, sento un braccio che si è liberato. E’ a quel punto che mi viene un’idea, una sorta di illuminazione.
Non so perché e come l’ho fatto. Solo che, lì da per terra, ho afferrato la palle di quello più grosso e che sembrava il più cattivo. Le stringo forte e lo sento urlare e piegarsi.
Ma è un attimo, e gli altri due mi rimettono a posto. Prendo calci, mi tirano su di peso, mentre l’altro si riprende, mi guarda, mi urla in faccia che mi ammazza, mi butta per terra e con tutto il suo peso si butta su di me, colpendomi al centro della schiena con una gomitata.
Rimango a terra, non riesco più a respirare, il sangue mi esce dalla bocca.
I tre se ne vanno. Io rimango li immobile. Il peggio è passato, ora devo cercare di respirare, voglio alzarmi, voglio andare a casa.
Alla fine di quell’estate, tornai a Roma. La scuola non era ancora iniziata, chiesi a mia madre se potevo andare il libreria. Tornai con un libro, “Ill karatè in dodici lezioni”. Non dissi mai a nessuno il perché volevo fare arti marziali.
Una cosa avevo chiara: per sopravvivere o dovevo omologarmi al loro comportamento o dovevo imparare a difendermi. E io non potevo omologarmi: non capivo nulla di pallone, non toccavo il culo a nessuna, non avevo nemmeno mai baciato nessuna. Non riuscivo a dare ragione a qualcuno solo per quieto vivere, non riuscivo a sopportare di fare o ricevere scherzi inutili per poter essere accettato. Non sopportavo l’idea di essere umiliato né di umiliare.
‘Scherzi’, fra loro li chiamano ‘scherzi’. Non la considerano violenza, loro scherzano.
Me ne resi conto la prima volta in cui le cose cambiarono, in cui la mia vita iniziò a prendere una direzione differente.
Ho sedici anni, sono in un bar al paese, sempre il solito paese.
Le solite prese in giro, le solite minacce, le solite umiliazioni, la mia solita reazione. Solo che questa volta è più violenta, più inaspettata, il lavoro in palestra comincia a farsi vedere. Non che ancora sia in grado di gestire la cosa, ma comincio a non sentire più la paura che blocca, i pensieri sono più lucidi. Prova a colpirmi, ma non ci riesce, è più grosso di me e mi si lancia addosso. Finiamo sopra un tavolino. Il mio sguardo è attratto da un posacenere. Non penso, lo afferro e con tutta la mia forza colpisco l’avversario in testa.
Lui strilla dal dolore, si leva, la testa gli sanguina. Mi guarda e spaventato mi dice che sono scemo. Non riesce a capire perché gli ho dato il posacenere in testa. Mi dice che stava scherzando.
“Ecco, allora non scherzare più con me” e da quel giorno fu così. I miei amici impararono che con me certi ‘scherzi’ non si potevano fare, i miei nemici imparano altrettanto.
La vittima non accettava più il suo ruolo, e il carnefice si dileguava.
Cresci, ma non è che finisce. I ‘maschi’ continuano a esistere, solo che il ‘maschio’ sa scegliersi bene le prede: le sceglie docili, remissive possibilmente bloccate dalla paura. E io non rientravo più nel loro territorio di preda. Rimanevo uno ‘strano’ magari diverso dalla norma, però – dicevano – fa arti marziali, è uno che si difende. D’improvviso da tira seghe vengo accettato nel club dei maschi. Ma in quel club io non ci so stare, non voglio stare.
Prima delle arti marziali, facevo pattinaggio, artistico. Lo amavo, ero attratto dai pattini, da quei salti, da quel volteggiare. Inutile che riporti i commenti e i sorrisi degli amici delle mie colleghe pattinatrici che venivano a guardarle e trovavano un ragazzino in pista.
A me anche piacevano le ragazzine che pattinavano, quanti amori segreti e mai rivelati che mi tenevo dentro. Che per troppo pudore e per troppo rispetto per l’altra non riuscivo ad esternare.
Però pattinavo e questo era abbastanza per farmi etichettare.
Non ero scandalizzato dal fatto che per loro ero un ‘frocio’, termine che in fondo ancora nemmeno conoscevo.
Non era il termine in sé o il suo significato a farmi arrabbiare, ma la prepotenza, la cattiveria, la violenza che chi pronunciava quelle parole portava con se.
La violenza, è vero, anche io ho imparato ad usarla. Sempre per difendermi da altra violenza. Non mi è mai passato per la mente di usarla come facevano i miei coetanei per farsi belli, come galli dentro un pollaio per mostrare agli altri polli chi è il più figo e chi ha il diritto di prendersi le galline più belle. Io in questo pollaio non ci voglio entrare.
Per difendermi ho usato violenza sugli altri, certamente, ma sopratutto su me stesso. Violentando il mio corpo, i miei desideri, cambiando le mie aspettative.
Mi alleno da più di trent’anni, non ho mai smesso e penso che non smetterò mai. La fortuna è stata quella di essere riuscito a trasformare tutta quella paura e quella rabbia in passione. Ma non per tutti è cosi. Quelle violenze hanno segnato la mia vita, l’hanno modificata, io per fortuna e per merito (perché il merito è anche mio e me lo rivendico tutto per la fatica fatta) ne sono uscito bene. Ma per quanti non è cosi?
Penso al mondo delle donne, penso al mondo gay al mondo trans penso a tutti quei mondi in cui i diritti e la dignità della persona, vengono continuamente calpestati solo perché non rientrano negli schemi preconfezionati di questa società così maschilista, così sessista. In nome di una regola, di un codice scritto da maschi per maschi, o meglio da maschi bianchi eterosessuali per maschi bianchi eterosessuali, con le loro rigide gerarchie, i loro rigidi ruoli, i loro rigidi tabù.
Penso alle battaglie che si fanno e alla tanta strada che ancora c’è da fare. Penso che il mondo ‘maschio’ che è il principale artefice di questo mondo discriminatorio e violento che ci circonda, debba fare i conti con se stesso, in se stesso.
Penso che il ‘maschilismo’ debba essere necessariamente debellato. Perché che questa non deve essere una battaglia solo femminista, solo gay o solo trans. Perché violenza e prepotenza colpiscono tutti, e tutti in un modo o nell’altro l’abbiamo provato sulla nostra pelle.
La violenza e la prepotenza dei maschi.
Quella violenza, quella prepotenza di quei bambini che mi prendevano in giro, di quegli adolescenti che mi picchiavano, di quegli adulti che in famiglia, nel lavoro, nella società continuano indisturbati a esercitare. In quell’eterna gara a dimostrare chi ha il cazzo più lungo che da sempre appassiona e condiziona la vita dell’universo maschile.
Tra qualche mese compirò quarantacinque anni. Due giorni fa, la figlia della mia compagna è uscita di casa per comprarsi un kebab. Tornata mi ha raccontato di un tizio sulla cinquantina fermo in motirno al semaforo. Mentre passava l’ha guardata e le ha detto ‘fammi un bocchino’.
Ed io sono tornato a quel pomeriggio d’estate di quando avevo 6 anni.
Naturalmente, non tutti i maschi sono cosi. E il maschilismo non lo troviamo solo nel genere maschile. Non siamo tutti colpevoli ma siamo sicuramente tutti responsabili. Io non sono da meno. Anche io sono maschio, anche io, con tutte le distanze che prendo da quel mondo non sono immune dai troppi condizionamenti che la società, la chiesa, la famiglia, la scuola, lo stato ci imprime nel cervello sin dalla più piccola età.
Ed è per la mia libertà, che ho scelto e scelgo di liberarmene.
Affinché il mio corpo e i miei pensieri non siano mai più in catene, né fisiche né mentali.
Schiavo di un personaggio scelto da altri di una sceneggiatura imposta.
Libero io, liberi tutti.
Scelgo di non essere vittima, scelgo di non essere carnefice.
Dario
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