Il mio amico Walid |
Lo so. La notizia è uscita qualche
qualche giorno fa suscitando giustamente lo sdegno dei più. Ovviamente c'è stato pure chi, pur di fronte alle immagini, ha negato la realtà nascondendo
la testa sotto la sabbia facendo finta di non vedere o semplicemente ignorando quello sta facendo Israele nei Territori Occupati. Oggi,
però, cercando una fotografia per un articolo, mi è capitato sotto mano
l'album del viaggio in Palestina. E' stato un attimo ritrovare tra i
volti di quei bambini che ho fotografato la faccia di Wadi'a
Maswadeh che a cinque anni è stato fermato e trattenuto per due ore
dai soldati israeliani per il solo fatto di aver tirato delle pietre. Per
questo ho voluto scrivere.
In Palestina sono andata nell'aprile 2009 con
la carovana di "Sport under the siege": è stato un viaggio
incredibile che mi ha segnato profondamente. Qui di seguito ci sono le foto e il
report di quelle giornate che ancora oggi, rileggendo, mi fa venire i
brividi.
"La strada che dall’aeroporto
Ben Gurion di Tel Aviv porta al campo profughi di Dheisheh, a
Betlemme, prima tappa della carovana di “Sport sotto l’assedio”,
è costellata di chilometri di filo spinato, reti, muri di cemento.
Il paesaggio desolato è interrotto da piccoli insediamenti
arrampicati sulle alture brulle. Nei villaggi dei coloni le case
sono basse (per rendere più rapidi i tempi di costruzione), hanno i
tetti rossi spioventi. Pare sia per distinguerli, durante i
bombardamenti dell’aviazione israeliana, dai tetti
bianchi e piatti dei villaggi e dei campi profughi palestinesi. C’è
come un’enorme trincea ritmata da tronchi di ulivo decapitati che
affiorano dal terreno, ciò che resta di centinaia di alberi
secolari. Vedere quei pezzi d’albero senza vita dà il senso della
violenza dell’occupazione.
La nostra meta è l’Ibdaa cultural
center, centro culturale nato nel 1994 che si trova all’ingresso di
Dheisheh, uno dei 59 campi profughi nati nel ‘48: 12 mila persone
costrette in mezzo chilometro quadrato. «Ibdaa» letteralmente vuol
dire «creare qualcosa dal nulla». Ci spiegano: «Da sessant’anni
il volere israeliano è che a Dheisheh non debba esserci nulla, per
questo il centro si chiama Ibdaa». Il centro organizza nel campo
l’ostello, il ristorante, la biblioteca, l’asiloper i bambini, un laboratorio di
sartoria, l’ospedale, attività come danza, musica, teatro, e il
comitato delle donne. Inoltre, con grande fatica, l’Ibdaa finanzia
l’università, ogni anno, a cinquanta ragazzi di Dheisheh. Nel
campo si procede in fila indiana, non c’è spazio, le case sono
molto vicine l’una all’altra. Il nostro accompagnatore, Jihad, ha
26 anni. «Qui è come averne 50», dice. Sui muri graffiti e murales lasciati da artisti
di ogni parte del mondo, alcuni sono opera dei «carovanieri» che ci
hanno preceduto quest’anno e negli anni passati. Ai murales si
alternano le facce di giovanissimi ragazzi del campo uccisi
dall’esercito israeliano, l’ultimo è stato crivellato da 500
colpi di mitra.
La prima giornata prevede il grande
evento: la partita della nazionale under 21 palestinese contro
l’improvvisata nazionale italiana di Sport sotto l’assedio, a
seguire l’incontro tra le squadre femminili. Lo stadio di Al Ram, a
Ramallah, è stato costruito dalla Fifa, la federazione calcistica mondiale, due anni fa. Qui
si allena la nazionale palestinese, che durante l’«operazione
Piombo fuso» ha perso due dei suoi giocatori migliori, uccisi a Gaza
dalle bombe israeliane.
Per arrivare allo stadio non possiamo
percorrere l’autostrada, riservata ai cittadini israeliani, che
collega in venti minuti l’insediamento di coloni Maali Adumin con
Gerusalemme. Noi, per raggiungere Ramallah a bordo di un autobus con
la targa verde palestinese, abbiamo impiegato circa un’ora e mezza, lungo la strada
tutta curve che passa dal «check point» di Abu Dis. Allo stadio
però riceviamo un’accoglienza degna dei campioni del mondo,
bandiere italiane e palestinesi sventolano ovunque. Sotto una
gigantografia di Arafat c’è uno striscione di “Sport sotto
l’assedio”: «Senza la vostra libertà non saremo mai liberi».
Un momento di imbarazzo, prima del fischio di inizio, quando i
ragazzi palestinesi con noi sugli spalti hanno provato a metterci in
mano il tricolore per ascoltare gli inni nazionali. Finito quello
palestinese (la squadra di casa con la mano sul cuore) è toccato a
noi: sulle note dell’inno di Mameli nessuno sapeva cosa fare,
all’improvviso si è alzato un pugno e da lì sulla curva italiana
è partita una «ola» di pugni chiusi, ci è parso un compromesso
accettabile. Il risultato sportivo invece è deludente: abbiamo perso
le due partite 10 a 0 e 9 a 0, e in mondovisione.
Il 5 aprile la carovana si è divisa in
tre gruppi che hanno raggiunto, scarpini da calcio ai piedi, diverse
zone della West Bank, per disputare partite con le squadre locali e
per iniziare i laboratori di fotografia, energie rinnovabili, musica
e free software rivolti ai bambini e agli adolescenti, quelli che più
soffrono una situazione in cui la guerra e l’occupazione sono la
normalità. Dopo i saluti e un’abbondante colazione a base di
humus e felafel, il mio gruppo si dirige verso Jayyous, nel distretto
di Qalqilya, a pochi chilometri da Tel Aviv.
Ripercorriamo la strada del giorno
prima, al «check point» di Abu Dis i militari trattengono la nostra
guida palestinese, membro dell’associazione Stop the wall. Poi lo
lasciano andare, ma Mohammed si dovrà presentare per un controllo
nei giorni successivi. Lungo il percorso la guida ci spiega la
situazione del villaggio: fino al 2002, Jayyous godeva di una
economia florida, fatta di agricoltura e commercio anche con i vicini
israeliani. Con la costruzione del muro, Jayyous ha perso buona parte
dei campi coltivati, gli uliveti e i pozzi. Ora la disoccupazione è
al 75 per cento. Da novembre scorso l’associazione “Stop the
wall” organizza ogni venerdì una manifestazione contro il muro cui
partecipa tutto il paese.
Il nostro arrivo nel villaggio è
salutato da centinaia di bambini, ci corrono dietro fino al Charity
Center, dove saremo ospitati nei quattro giorni successivi. è un
centro di assistenza alla popolazione come ne esistono in altre città
palestinesi. Al piano terra c’è la scuola per i bambini dai 4 ai 6
anni, che imparano arabo, matematica e inglese. Ogni mattina le voci
dei bambini saranno la nostra sveglia, insieme al canto del muezzin.
Ci sistemiamo in uno stanzone, 53 materassi e un unico bagno; nella
fila per entrarci nasceranno grandi amicizie. Dopo le presentazioni e
il pranzo, partiamo per le vie di Jayyous accompagnati dalla Banda
della Murga, quella che anima i cortei romani con salti e balli al
ritmo dei tamburi. Come sempre, decine di bambini ci seguono. Con
loro raggiungiamo la parte alta del paese, da lì è ben visibile il
muro di cinque chilometri e mezzo e il «gate north», sorvegliato
dagli israeliani, che filtra l’accesso al 78 per cento delle terre coltivate. Per raggiungere i
campi esistono due passaggi, aperti tre volte al giorno per un’ora,
e un «terminal» aperto 12 ore al giorno, ma con controlli più
rigorosi. Sul recinto-muro che circonda il paese spiccano placche di
plastica numerate: se qualcuno tocca la rete, i sensori mandano un
segnale alla centrale di controllo israeliana: i numeri servono ad
identificare rapidamente la zona. Il pass per attraversare il muro
è rilasciato a discrezione degli israeliani. Al momento è concesso
– come ci hanno raccontato i ragazzi di Jayyous e come abbiamo
verificato con i nostri occhi - solo a persone
anziane. L’ultima volta, su cento richieste di pass ne è stata
accettata solo una, fatta da una persona che vive a Dubai, nel Golfo.
Il giorno successivo saremmo voluti
andare a Gaza, ma un fax israeliano ci ha fatto sapere, prima della
partenza, che «nella Striscia di Gaza non c’è niente da vedere e
nessuno da incontrare». Perciò restiamo a
Jayyous. Con Muafaqk e Noor, studenti universitari e volontari del
Charity Center, andiamo vedere i due «gates». Al di là del filo
spinato la collina appare verde e lussureggiante; dal lato
palestinese la terra è arida. A ridosso dell’orario di apertura
del «gate north» arriva un contadino su un vecchio
trattore. In perfetto inglese, l’uomo, rappresentante del Comitato
in difesa della terra come la maggior parte dei contadini della zona,
ci racconta le difficoltà di ottenere il pass: bisogna dimostrare di
avere un campo, di non avere problemi con la sicurezza israeliana per
attività politica o altro, di non avere in famiglia un «martire»,
e in quel caso la terra viene espropriata. Il permesso va rinnovato
ogni tre o sei mesi, ogni volta con un periodo di attesa di un mese
durante il quale il raccolto viene abbandonato. E comunque ottenere
il pass non dà certezze: i soldati possono chiudere l’accesso per
giorni, o semplicemente non farti passare.
È questo stato di costante incertezza,
di assenza di regole, anche ingiuste, che rende ancora più precaria
la vita di questa gente, spingendola all’esasperazione: «Sai
quando esci di casa - raccontano - ma non sai quando arriverai al
lavoro, al tuo campo da coltivare, all’ospedale o all’università».
I prodotti palestinesi non vengono
venduti in Israele, i prodotti israeliani invadono i mercati
palestinesi abbassando i prezzi. I pomodori si vendono a meno di un
euro per 15 chili. «Nella stagione delle olive abbiamo bisogno di
lavoratori, ma solo chi ha il pass può attraversare il confine», spiega ancora il vecchio sul
trattore. Molte donne non vanno più nei campi per non subire
l’umiliazione della perquisizione. L’aiuto arriva solo dagli
«internazionali», e da qualche israeliano.
La sera del 6 aprile dall’unico
internet point o via sms cominciano ad arrivare le notizie del
terremoto in Abruzzo. Il giorno successivo tutti ci esprimono grande
solidarietà e ci ringraziano di essere lì, nonostante la situazione
in Italia. Ci guardiamo intorno, vediamo le case distrutte di Jayyous, proviamo a immaginare
L’Aquila.
Per le strade si vedono solo bambini,
qualche adolescente, poche donne e praticamente nessuna ragazza.
Conosciamo Husam, 21 anni, di cui tre passati in carcere, tre buchi
di pallottola sul corpo. Lavora in una radio a Ramallah, ed è
l’unico posto che ha il permesso di raggiungere quando esce dal villaggio. Si definisce un
«throwing stones», tiratore di sassi. Si dichiara comunista, al
collo ha un vistoso ciondolo con la falce e il martello, non va in
moschea. Ci porta a vedere il paesaggio notturno dalla scuola, indica
Tel Aviv e poi il mare, è da nove anni che non può andarci. Il
panorama è a macchie di luce e buio, le zone
illuminate sono insediamenti israeliani, quelle buie città
palestinesi. Ci indica all’orizzonte il villaggio di Sofem, in
Israele, dal quale il venerdì arriva qualche ragazzo israeliano per
partecipare alla manifestazione.
Da novembre sono state arrestate 25
persone. Un mese e mezzo fa i soldati israeliani sono entrati in
paese rastrellando a caso uomini e ragazzi per le case del villaggio,
rinchiudendo 85 persone, bendate, per tre giorni nella scuola e
infine procedendo a 13 arresti. Mentre siamo al campo sportivo, i
soldati entrano di nuovo.
Il proiettile sparato sotto i nostri occhi |
Prima di lasciare Jayyous andiamo a
Qalqilya. Anche qui l’economia era viva, gli israeliani venivano a
comprare piante, fiori e altre produzioni locali. Con la costruzione
del muro, nel 2002, si sono persi 7 mila ettari di terreno. Il
settanta per cento dei residenti dipende dalla Carta dei rifugiati, che permette di accedere
agli aiuti delle Nazioni unite per i beni di prima necessità. Qui,
come a Jayyous, Hamas è il primo partito. Il muro impressiona per la
sua altezza e imponenza e per il senso di oppressione che dà. Si
sente il rumore della auto che percorrono l’autostrada israeliana,
dall’altra parte.
Il viaggio è alla fine. Salutiamo i
nostri amici Moafawq, Noor, Husam, Makmoud. Con loro cantiamo ancora
una volta «Bella ciao», poi li vediamo sparire per le strade, con i
nasi rossi da clown lasciati come ricordo dalla Banda della Murga.
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