"Il posto più bello della mia città", Dario |
Se un visitatore entrasse alle Gallerie d’Italia a Milano
senza sapere nulla del progetto esposto, penserebbe tranquillamente di trovarsi
davanti a una mostra di qualche celebre fotografo appena insignito del Pulitzer
per i suoi reportage urbani. Gli scatti presentati nel polo museale di piazza
Scala, non sono solo bellissimi: chi li guarda si trova ad osservare una realtà
altra rispetto all’evidente. Questo perché gli autori delle 52 immagini sono
persone speciali che hanno cercato e in molti casi trovato il proprio riscatto
attraverso la fotografia. Sono clochard, donne e uomini abituati a essere
definiti per difetto: “senza”, senza un impiego, senza una casa, senza un
futuro che hanno scoperto che la vita può riservare loro ancora soddisfazioni
personali e lavorative.
La mostra «13 Storie dalla Strada» è proprio questo: un
viaggio lungo un anno nell’universo sociale di Fondazione Cariplo (che in 28
anni ha realizzato migliaia di iniziative per restituire un’identità a chi
l’aveva persa attraverso progetti di inserimento lavorativo, di housing
sociale, di welfare di comunità) documentato dai protogonisti. Un viaggio lungo
un anno che li ha portati dalla periferia al cuore della città.
"La prima volta sul ring", Aquil |
"Fertile come una comunità", Massimo |
E proprio nel cuore di Milano ecco esposte le foto del
riscatto (ne sono state scelte 52 su un migliaio): la comunità allegra di un
orto urbano, il volo di un acrobata, un appartamento dove vivono ragazzi
disabili, il volto di una scienziata, il cazzotto di un pugile al sacco. Le
immagini sono firmate con il nome di battesimo dell’autore. Uno di questi è
Dario, 45 anni, che è nato e cresciuto in una famiglia borghese in Argentina.
Dorme nel dormitorio di viale Ortles, ama leggere e dopo tanti anni senza un
lavoro, adesso ha trovato un impiego notturno. «La strada», racconta, «mi ha
tolto tanto ma mi ha anche dato: mi ha insegnato a non avere pregiudizi, in
strada si trovano racconti molto più ricchi di quelli del mondo “normale”.
Soprattutto mi ha insegnato a essere felice di quello che ho. Siamo abituati a
desiderare sempre qualcosa per essere felici, io non ho bisogno di niente, sono
sazio. E la fotografia in questo mi ha aiutato moltissimo perché mi ha
costretto a cercare le cose belle intorno a me ed è quello che faccio ora:
cerco la bellezza, ho smesso di essere passivo». Ci tiene a spiegare come è
finito in strada: “Nessuno della
mia famiglia conosce le mie condizioni attuali, mi vergogno con loro e farò di
tutto perché non scoprano quello che sto vivendo, per loro sarebbe un colpo
troppo duro. Quando ero ragazzo erano stati molto delusi dalla mia decisione di
smettere di studiare, anche perché io amavo studiare. Ho smesso perché avevo
deciso di dedicarmi agli altri a tempo pieno, facevo volontariato in una
comunità che si occupava di persone indigenti. La mia è una storia lunga, ci
sono stati in mezzo degli amori, anzi un amore, persone sbagliate, sofferenza,
viaggi. Un giorno mi sono ritrovato su una panchina, io che mai avrei pensato
che sarei finito per strada. Quando sei su una panchina, di notte e piove e sei
tutto bagnato l’unico conforto è la fede, cercare la presenza di Dio. Ma ho
anche incontrato tante persone che mi hanno aiutato. Quando non sapevo niente della
vita di strada, non sapevo dove lavarmi, dove mangiare, a chi rivolgermi, sono
stato adottato da un gruppo di cinesi, sono stati loro a insegnarmi tutto. La
mia casa era tutta la città, per lavarmi andavo a un estremo di Milano, per
mangiare a un altro, se volevo vedere un amico magari erano altri chilometri.
La casa come luogo dove sentirsi protetto, come rifugio non esisteva più,
dovevo imparare a fidarmi degli altri, non potevo chiudere la porta come fanno
tutti. Ho vissuto a lungo per strada ma
sono sempre molto attento a lavarmi e vestirmi bene eppure mi rendo conto che
le persone si accorgono della mia condizione, non so come fanno, perché non ho
i loro occhi, ma è così. Dopo tanti anni ho ritrovato un lavoro, mi occupo di
sicurezza notturna in un grande magazzino, la mia giornata comincia di sera.
Ricominciare a lavorare è stato più facile di quello che pensavo ma ho paura di
fallire, di deludere gli altri”.
Foto di Amat |
"Qualche passo nel cielo", Fedele |
Poi c’è Massimo B., 55 anni, che ama il cinema western e i
fumetti di Bruno Bozzetto, dorme in un centro di accoglienza vicino al parco di
Trenno, mangia all’opera San Francesco. In un’altra vita avrebbe voluto essere
un ranger, ma ora scatta foto bellissime. “La
macchina fotografica non era un oggetto sconosciuto quando ho iniziato il
corso, tra i vari lavori che ho fatto per tanto tempo ho accompagnato un
fotografo di matrimoni, all’inizio lo aiutavo a tenere gli attrezzi, poi ho
iniziato a scattare anche io”, racconta. “Soprattutto fotografie in bianco e
nero, amo il bianco e nero, non so perché, mi piace la sensazione che mi dà.
Prima di partecipare a Ri-scatti non fotografavo più da anni, nella mia vita
nel frattempo erano successe così tante cose brutte. La perdita del lavoro dopo
vent’anni come magazziniere, la morte dei miei genitori e poi di mia sorella
per un tumore, la solitudine, la nostra casa all’asta. Quando è venuto
l’ufficiale giudiziario ci siamo guardati, mi sembrava che anche lui fosse
dispiaciuto, gli ho detto: non si preoccupi, me ne vado io, gli ho consegnato
le chiavi, lui rimaneva in silenzio, quasi provavo pensa per lui”. Massimo
continua: “La prima notte sulla panchina ho pensato quasi quasi la faccio
finita e ancora adesso ogni tanto lo penso, se non l’hai provato non sai che
cosa significa cercare riparo negli angoli delle stazioni, passare da un dormitorio
all’altro quando va bene. Dormo in un
dormitorio, esco la mattina, porto i curriculum, tengo i cani di qualche
vecchina che ogni tanto mi ospita anche mangiare. E poi mi siedo su una
panchina e scatto foto e mi sento più in pace. Mi dicono: hai 55 anni che cosa
ti aspetti? Ma io non voglio morire in un dormitorio. Vorrei più di tutto un
lavoro, un piccolo appartamento e poi certo sarebbe bello trovare anche
qualcuno ad aspettarmi a casa quando torno”.
Un altro autore delle meravigliose foto è Massimo A., 56
anni, vive nel dormitorio di viale Ortles; la macchina fotografica è il suo
occhio indiscreto per fermare il tempo. Per lui, come per tutti gli altri
artisti protagonisti della mostra, riscatto è ritrovare il lavoro, possedere
finalmente o nuovamente le chiavi di una casa, ricostruire legami perduti. Ma “13
Storie dalla Strada”, curata da Dalia Gallico e realizzata con la
collaborazione di Ri-scatti Onlus, dimostra che il riscatto può passare pure
attraverso la riscoperta della dignità del proprio sguardo.
Si può visitare fino al 1° settembre 2019.
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