Cosa fa il tuo animale domestico quando non ci sei? Nell’ascensore del tuo palazzo si fanno incontri interessanti? E ancora: cosa abitiamo? Può l’ufficio essere una casa? Il nostro corpo è la nostra prima casa? Ti piacerebbe che a casa tua passasse il mondo?
Queste sono solo alcune delle riflessioni alle quali è sollecitato il visitatore della mostra che inaugura oggi in Triennale. “999. Una collezione di domande sull’abitare contemporaneo” è infatti una rassegna d’architettura unica nel suo genere: è piuttosto una grande indagine sul concetto di casa, sul senso di dimora a cavallo tra il mondo fisico e quello digitale; è un viaggio attraverso i nuovi immaginari che trasformano le nostre esistenze.
Una mostra - ci tiene a specificare il curatore Stefano Mirti - dove è vietato non toccare, uno spazio di conversazione, arricchimento, scambio. Così il visitatore entra letteralmente nella casa di un futuro che è già diventato presente spostandosi da un ambiente all’altro e interagendo in prima persona con tutta una serie di nuovi modi di abitare. «A un certo punto», spiega Mirti, «mi è venuta questa idea un po’ particolare, strana di trasformare un piano della Triennale in una casa. Per essere precisi casa mia. Una casa “mia” che un secondo dopo diventa casa “nostra”. Una casa costruita assieme ad amici e colleghi, dove conosere nuove persone e ospitare nuovi compagni. Raccontare e ascoltare storie, condividere esperienze. Capire. Fare. Se volete venire a trovarci noi ci siamo. Tutti i giorni, per tre mesi: incontri, performace, residenze, workshop, installazioni, laboratori. E altro, che ancora non sappiamo».
Innumerevoli sono infatti gli spunti di conoscenza, intrattenimento e riflessione che vengono proposti. La narrazione, che si apre con un’installazione immersiva realizzata insieme a Edison, si snoda attraverso le nuove declinazioni del “fatto in casa”, la manifattura digitale, la casa vista da un malato di Alzheimer, affrontando anche l’idea di abitare di chi la casa non ce l’ha e le nuove abitudini, come il co-housing che si sovrappone al co-working.
Di grande interesse il concetto di “abitare pop” sviluppato dagli studenti di social design e fotografia di Naba sulle case popolari: «Popolare», spiegano, «è aggettivo e verbo, è condizione e azione. A differenza di altre tipologie insediative le case popolari rappresentano un colossale dispositivo di scambio, di racconti, di esperienze, di persone». Ecco allora i citofoni ai quali suonare per farsi raccontare una storia, o i telefoni che squillano ai quali rispondere o le cassette della posta da aprire per trovare una ricetta. «Per come la vediamo noi una casa popolare è fatta di tante abitazioni, ma in fondo è un’unica, grande casa».
Non meno importante il piccolo spazio (c'è solo un letto e le pareti di cartone tappezzate da fotografie) dove vengono raccontati alcuni progetti romani come il MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz e l'Hotel Africa.
La mostra è uno spazio che si riempie secondo il principio dei vasi comunicanti e si avvale anche dei più popolari tra i canali di comunicazione: i social. L’invito a partecipare è infatti una call for action: si parte dalle domande dei curatori per allargare la collezione alle domande di chi segue Instagram, Fb, Twitter. Resterà aperta fino al 2 aprile 2018. Da vedere.
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