martedì 13 settembre 2016

Gli anni d'oro degli anarchici a Milano

Carlo Carrà, I funerali dell'anarchico Galli
Al MOMA di New York è esposto il quadro di Carlo Carrà I funerali dell' anarchico Galli. L' opera racconta della carica delle forze dell' ordine sugli operai al passaggio del feretro di un giovane sindacalista ucciso la mattina del 10 maggio 1906 durante uno sciopero generale proclamato a Milano. Il corteo funebre era aperto da 15 enormi bandiere rosse e nere, dietro alle quali sfilarono migliaia di operai e militanti. Nel percorso tra l'obitorio e il cimitero si cercò di disperdere i manifestanti causando diversi feriti, fra cui molte donne e bambini. Carrà era presente e immortalò lo scoppio degli scontri nel celebre dipinto che venne esposto alle mostre futuriste di Parigi, Londra e Berlino nella primavera del 1912.

L' episodio non scosse solo Carrà, ma tutta la città di Milano, tanto che Francesco Lisanti l' ha usato come copertina del suo libro Storia degli anarchici milanesi (1892-1925), pubblicato da La Vita Felice (pp. 312, euro 18,50), e gli ha dedicato diverse pagine all'interno. L' autore, usando documenti inediti scoperti all' Archivio di Stato di Milano, racconta di una città che vedeva la nascita di nuovi movimenti, ma anche il radicarsi nella società della forza rivoluzionaria dell' anarchia, che non è «morale corrotta» e «leggi non rispettate», bensì, come specifica Lisanti, «la critica verso ogni forma di governo autoritaria affinché si tornasse a un'armonia e una legge di natura basata sulla cooperazione e sulla solidarietà fra gli uomini, e non più sulla coercizione, all' interno della quale gli uomini in una condizione di pace e uguaglianza avrebbero potuto esprimere liberamente le proprie potenzialità. Un sistema dove gli individui diano e prendano secondo le loro necessità, senza padroni o schiavi».
Il volume inizia con il ritorno a Milano di Pietro Gori per tentare di ricostruire un movimento falcidiato dai processi e dagli arresti, infiltrato dagli agenti di polizia, costretto a riunirsi alla fioca luce delle osterie, ma pronto a tutto per liberare il popolo da una condizione di oppressione. E in questo quadro spicca la figura di Gaetano Bresci che da Patterson (Usa), dove era emigrato, tornò all' ombra del Duomo richiamato dall' orrore della carneficina voluta dal generale Bava Beccaris che, agli ordini dei Savoia, non si fece scrupoli a reprimere a colpi di cannone l' insurrezione dei milanesi per l' ennesimo rincaro del prezzo del pane.
La sera del 29 luglio 1900, poco dopo le 22, il sarto uccise a Monza il re d'Italia Umberto I (già scampato a due attentati da parte dagli anarchici Giovanni Passannante e Pietro Acciarito) sparandogli tre colpi di rivoltella. Dopo il regicidio Bresci si lasciò catturare dai carabinieri senza opporre resistenza. «Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il Re. Ho ucciso un principio», disse durante il processo. Imprigionato nel penitenziario di Santo Stefano, a Ventotene, doveva scontare l'ergastolo, ma fu ucciso (inscenando un suicidio) il 22 maggio 1901.
Il gesto di Bresci, ricorda Lisanti, cambiò l'Italia: molti erano pronti ad emularlo e il timore di altri attentati costrinse il governo ad abbassare le tasse, cambiare classe dirigente e fare delle concessioni al popolo stremato. Nello stesso tempo le idee che avevano spinto il reo confesso al regicidio circolarono in tutti gli strati della società. A inizio Novecento, finalmente non più clandestini, gli anarchici si batterono per i diritti dei lavoratori, contro il governo e la monarchia, e per una scuola libera e laica come quella ideata dal catalano Ferrer.
Nel momento più buio della Grande Guerra i venti rivoluzionari che sferzavano la Russia portarono una nuova illusione. Lisanti, documenti alla mano, narra di come le fabbriche venissero occupate, del ritorno di Errico Malatesta, dell' uscita del giornale Umanità Nova (venivano distribuite 6mila copie al giorno) e di come la rivoluzione sembrasse vicina anche in Italia.
Ma l'illusione svanì presto. La sera del 23 marzo 1921, per protestare contro la prolungata detenzione di Malatesta, Armando Borghi e Corrado Quaglino (in sciopero della fame rinchiusi a San Vittore da cinque mesi senza ancora essere stati rinviati a giudizio), Giuseppe Mariani, Giuseppe Boldrini ed Ettore Aguggini fecero esplodere un carico di dinamite all' esterno del "Diana" a Porta Venezia. L'intenzione era quella di colpire il soprastante albergo che, secondo informazioni date agli attentatori forse come trappola, doveva ospitare un incontro tra Mussolini e il questore di Milano Gasti. Erano loro gli obiettivi. E invece alla fine il bilancio fu di 21 morti e un'ottantina di feriti innocenti.
L'attentato al Diana portò una nuova repressione, nuovi arresti, lo smantellamento del Movimento anarchico milanese e, con la presa del potere da parte del Duce, il ritorno alla lotta clandestina. «Come in uno sviluppo circolare della storia», fa notare Lisanti, «si ritrovarono nelle condizioni in cui versavano nell' Ottocento, sotto il governo Crispi. Nel giro di pochi anni passarono dall' aver fatto due tentativi di rivoluzione all' isolamento, dalla lotta per aver più diritti a perdere quelli faticosamente conquistati».

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