giovedì 11 agosto 2016

L'esibizionismo pornografico del curatore

Massimiliano Gioni
«Il curatore è presente. L’artista è assente». Era il 2010 e Marina Abramovic regalava al più famoso dei curatori d’arte, il suo amico Hans Ulrich Obrist, un videoritratto che cominciava proprio con queste parole. La celebre performer indossava gli occhiali con la montatura di plastica trasparente – segno distintivo di Obrist – e dopo aver mostrato il cartello con il titolo dell’opera parlava del protagonista, condirettore della Serpentine Gallery di Londra e per ArtReview il secondo personaggio più influente al mondo nell’arte contemporanea: «Han Ulrich è... rapido... insonne... instancabile... curioso... enciclopedico... avventuroso... ossessivo... posseduto... artistico... olimpico... monotono... corridore...vulcanico... ciclonico... strabiliante... sorprendente... incontenibile... innamorato dell’arte... dipendente dai farmaci... (e così via)». Abramovic nel video incarnava il curatore oppure lui si era impossessato di lei. Forse lo prendeva in giro, ma molto più verosimilmente dava voce alla preoccupazione di molti artisti per il fenomeno dei curatori con manie di divismo.

Un fenomeno iniziato negli anni Novanta che David Balzer ha ottimamente indagato e per il quale ha coniato il termine «curazionismo»: una patologia sintomatica della nostra cultura, una storia della nostra epoca. Nel libro Curatori d’assalto. L’irrefrenabile impulso alla curatela nel mondo dell’arte e in tutto il resto (Johan & Levi editore, 168 pagine, 16 euro) che gli è valso nel 2015 il premio dell’International Award for Art Criticism, Balzer mette sotto la lente la pratica curatoriale non in quanto espressione di gusto, sensibilità e competenza avallando così il feticismo del curatore, ma per denunciare gli eccessi di questa nuova delirante mania collettiva per la quale ogni evento mediatico ha bisogno del suo bravo curatore pagato fior fior di quattrini. In principio era infatti la conservazione, la valorizzazione delle opere d’arte custodite nei musei. Oggi la figura del curatore è diventata talmente iper professionalizzata, iper pagata (tipo i procuratori di calcio) e autoreferenziale da proliferare negli ambiti più disparati: la «cura» ha travolto i menù gourmet, le playlist, i festival canori e perfino i matrimoni e i curatori d’arte, abilissimi a promuovere anzitutto se stessi, appaiono imprescindibili arbitri del gusto e garanti del valore.
I vari Obrist, Christov-Bakargiev (direttrice del Museo di Arte Contemporanea di Torino e del Castello di Rivoli) e Gioni (direttore della 55.ma Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia ), offuscano il lavoro dei singoli artisti diventando essi stessi protagonisti degli eventi fino a degenerare in quello che viene definito «esibizionismo pornografico del curatore». Nella cartella stampa di Documenta 13, che si è svolta a Kassel nel 2012, c’era ad esempio un cd con diciannove ritratti della curatrice Carolyn Christov-Bakargiev («in mezzo alla foresta, spaparanzata in poltrona, con addosso le sue giacche sgargianti, ora lavoro sodo, ora se ne sta senza far niente, sempre in trono...», scrive la giornalista berlinese Nadja Sayej). «Un’esca», puntualizza Balzer, «ma anche contenuto, un metodo diffuso di commercializzare le manifestazioni» che relega in secondo piano il lavoro degli artisti e di fatto si sostituisce ad essi senza che alcuno sia nella condizione di opporsi. «I curatori», sottolinea Balzer, «sono ormai investiti di tale potere e autonomia decisionale e sono tanti gli artisti che competono per poter apparire nei prestigiosi eventi internazionali, vista la fragilità delle loro carriere, che nessuno osa ribellarsi».
La domanda è: che valore morale ha il curatore che diventa attore usando come materia prima l’opera di altri? Per quanto ci riguarda nessuno con il serio rischio che la degenerazione della figura del curatori porti se non al suo superamento, sicuramente alla sua trasformazione. Scrive Bezel a proposito di Obrist: «È il curatore più influente del mondo, ma potrebbe anche rappresentare il canto del cigno dell’intera categoria: après lui, le déluge. (…) Gli sforzi di Obrist per consolidare il suo lascito e quelli di altri complementari al suo – una personale crociata che lui definisce “resistenza all’oblio” – potrebbero trasformarsi in un sofisticato sarcofago di cui esisteranno solo pallide imitazioni».

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