L’austriaco Peter Aufreiter è un direttore in scadenza. Ma non lo dimostra. Con una sofferta decisione ha scelto di non rinnovare il contratto con il ministero dei Beni Culturali e dal 1° dicembre non sarà più il responsabile della Galleria Nazionale delle Marche. Eppure continua a fare progetti, a promuovere quel territorio così ricco di cultura ma fuori dalle grandi rotte turistiche, e a invitare tutti al Palazzo Ducale di Urbino, che ormai è diventata un po’ la sua casa. Si è inventato degustazioni di vini comprese nel prezzo del biglietto di ingresso, è riuscito a far arrivare il 20% di giovani in più grazie anche al videogioco "Raffaello in Minecraft" prodotto da Microsoft (che dà ai giocatori la possibilità di creare mondi di gioco con mattoni cubici, un po’ come con i Lego) e continua a battere l’Italia per far conoscere i personaggi, la storia e la cultura di quello che fu dei centri più importanti del Rinascimento e che dal 1998 è patrimonio dell’Unesco organizzando mostre ed eventi. E proprio in occasione della presentazione della grande mostra che aprirà i battenti in autunno dedicata al Sanzio "Raffello e gli amici di Urbino" conferma, amareggiato, che dal 1° gennaio sarà direttore del Museo della Tecnica di Vienna.
Nonostante abbia speso gli ultimi 4 anni della sua vita a far conoscere Urbino e il suo territorio, non presenzierà ad alcuna cerimonia per il cinquecentenario di Raffaello. Non era un motivo più che valido per restare?
«Assoltuamente sì. Infatti non è stata una decisione facile per me. Da circa sette mesi stavo riflettendo su cosa fare. Sapevo che il mio contratto era in scadenza ma non avevo avuto nessuna conferma che il ministero me lo avrebbe rinnovato di altri 4 anni. Così a gennaio ho iniziato a fare domanda come direttore in altri musei internazionali. Dopo diversi colloqui alla fine ho vinto il bando per Vienna. Nel frattempo il ministro Bonisoli ha elaborato una nuova riforma per i musei statali che prevede sempre meno autonomia. Ma quello che è pesato anche è stata l’offerta arrivata poche settimane fa dal ministero: mi rinnovavano il contratto come direttore ma non di 4 anni. Forse solo per uno o mezzo e senza neanche sapere cosa sarò chiamato a fare: sono direttore della Galleria e del Polo Museale e dopo la riforma non so ancora cosa mi rimarrà. Questo non mi soddisfa perché non valorizza ciò che so fare e che ero stato chiamato a fare».
Cosa pensava di fare?
«L’ex ministro Franceschini ci aveva chiamato per una riforma che poi, però, non è stata portata avanti, già sotto Franceschini. Mi piaceva l’idea di poter gestire i musei come negli altri Paesi in totale autonomia: pensavo di poter inventare strategie, di poter pianificare valorizzazioni con un budget magari deciso anni prima. Non lo dico con polemica: l’attuale ministro Bonisoli si è fatto la sua strategia nella quale ritiene che sia meglio una centralizzazione, ma per questa nuova rotta non mi sento più utile. Già adesso il 70% del mio lavoro è amministrazione e io non sono un amministrativo».
Quanto è pesata la burocrazia nella sua decisione?
«In Italia c’è tanta burocrazia, ma potevo anche accettarla se avessi potuto continuare a mettere in atto la mia strategia. Il problema nasce quando la burocrazia diventa parte fondamentale del mio lavoro e mi arrivano cinque circolari al giorno con decisioni prese da Roma lasciando pochissimo spazio alle mie scelte sul territorio. Non hanno bisogno di uno storico dell’arte, ma di un esperto di pubblica amministrazione italiana».
Quando parla di autonomia mancata a cosa si riferisce in particolare?
«Nella riforma è stabilito che solo il Ministero potrà decidere per i prestiti. Se io ho bisogno di un’opera che ha la National Gallery di Washington posso chiederla in prestito promettendo che fra due anni sarò io a prestarle un quadro delle nostre collezioni permanenti: questa è strategia. Ma se è Roma a decidere, non sono più io l’interlocutore. Il ministero oggi non mi dà rassicurazioni che fra due anni manderemo l’opera promessa a Washington. Se decidono lo fanno qualche mese prima. E non funziona così nel resto del mondo».
Un altro esempio?
«Quello del bookshop e della biglietteria: per gestirlo deve esserci un bando a livello nazionale dove magari vince qualcuno di Milano, Roma, Napoli... Loro che ne sanno di Urbino. Non sarebbe meglio qualcuno del territorio? Non sarebbe meglio che a scegliere il più adeguato sia io, il direttore? Sicuramente sono regole giuste e bisogna seguire la normativa del sistema italiano, ma il problema è che queste leggi valgono per Bolzano così come per Palermo senza pensare che ogni realtà ha un’esigenza diversa. Ogni museo è diverso, ogni bookshop è diverso da gestire. Però voglio dirle una cosa...».
La prego.
«Non voglio che tutto questo venga considerato una polemica. È solo la mia opinione. Di fronte a questa riforma mi sono reso conto di non essere più la persona giusta per questo lavoro».
Lei è uno dei sette direttori stranieri che guidano tra i più grandi musei del Paese. Le è stato fatto pesare di essere lo "straniero"?
«Mai. Queste polemiche sui direttori stranieri le ho sempre trovate ridicole. Mia moglie è di Urbino. L’ho conosciuta quando ho fatto l’Erasmus in Italia, uno dei primi organizzati in Europa. Ci siamo incontrati a un corso di lingue mentre studiavo il Rinascimento italiano. Urbino mi ha adottato già prima che divenissi direttore e sono tutti dispiaciuti che me ne andrò».
Vestiti per i custodi creati appositamente da uno stilista del territorio. Training motivazionali. Ha trasformato un suo impiegato annoiato nel lavoratore dell’anno semplicemente affidandogli la promozione social del museo. È anche questo il compito di un direttore del museo?
«Sì certo! Soprattutto la motivazione del proprio personale. Anche se sono impiegati statali sono riuscito a far identificare la stragrande maggioranza di loro con il Palazzo e a farli essere orgogliosi di lavorare qua. In tutti i settori: nell’ufficio marketing, in quello mostre e perfino in ragioneria. Le faccio un esempio: riescono a pagare le fatture in 25 giorni quando per legge dobbiamo farlo entro 30. Loro sono soddisfatti di essere scesi a 28 e poi 25. Tutto questo dipende molto dal direttore».
Il Palazzo dei Montefeltro era aperto alla cittadinanza. Anche il suo palazzo è così?
«Sì. Noi non siamo un museo, siamo un palazzo. L’80% dei visitatori, certo è felice di trovare Piero della Francesca, Raffaello, o “La città ideale”, ma viene a vedere soprattutto Palazzo Ducale che ai tempi di Federico era pieno di vita sociale. Ho pensato che dovevamo ricreare quella magia, farla vivere ai visitatori di oggi. Palazzo Ducale è aperto per matrimoni, concerti, feste private, convegni. Oltre ovviamente alle mostre. Volevo che tutti i marchigiani, o almeno quelli del Montefeltro, dicessero questo è il mio cuore della cultura».
Parliamo di numeri. Il suo bilancio è positivo?
«Prima del mio arrivo erano contati 170 mila visitatori l’anno e a fine 2019 arriveremo a 220 mila (il 35% in più): ovviamente non è conteggiato chi viene per i concerti o per le feste. Gli introiti sono raddoppiati perché ho smesso con la pratica degli ingressi gratuiti. La cultura costa, esattamente come una pizza. E i soldi servono per essere reinvestiti in mostre, restauro, pubblicazioni».
C'è qualche possibilità di un ripensamento?
«No. Ci ho pensato per otto mesi fino a due settimane fa. Poi è arrivata la lettera del ministero dei Beni Culturali. E ho deciso di andarmene».
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