Un pugno nello stomaco che fa ancor più male perché chi te l’ha dato non c’è più. Gianmaria Testa è morto a 57 anni il 30 marzo scorso dopo una lunga malattia; venti giorni dopo è uscito il suo libro "Da questa parte del mare" (Einaudi, pp. 112, € 12) che costringe a fermarti, pensare, interrogarti, conoscere. Proprio come fa lui - senza retorica con una lingua poetica e tagliente, burbera ed emozionata - in questa che Erri De Luca chiama «multibiografia di persone e di luoghi, dove sei anche tu». C’è Testa, figlio di contadini che ha rinunciato al posto fisso da ferroviere e che ci ha regalato 30anni di canzoni necessarie, precise. Canzoni che raccontano la vita, i sentimenti, ma anche i drammi del nostro presente.
Nel suo ultimo lavoro ci sono i migranti di ieri e di oggi: c’è Babasunde, che ha perso il suo nome e quella ragazza intirizzita che cammina verso la stazione «da caricare in auto per darle, e non comprarle, il calore». C’è il violinista di Scutari e il meccanico di Tirana con l’accento romagnolo. Ma c’è pure Jean-Claude Izzo, già malato che si commuove ascoltando una canzone di Murolo perché la cantava suo padre immigrato in terra di Francia. E poi c’è Tino l’africano che, dopo anni di sforzi e di integrazione, è diventato cittadino italiano ma continua a pensare agli occhi di quella donna incontrata durante la traversata verso Lampedusa. Testa scrive per lui “Il passo e l’incanto”, le parole di un «amore muto», che resta nella testa fino a diventare l’unico passato cui valga la pena di aggrapparsi per giustificare il presente.
Ci sono tutti loro, ma c’è anche Gianmaria Testa che confessa di aver provato rabbia nei confronti dei lavavetri al semaforo. C’è il ricordo di un matrimonio a cui ha partecipato da ragazzino, il passo del grano, la sua prima volta a Torino «che odora di ferro», il padre e il loro mondo «fatto di sguardi di chi ha capito senza bisogno di dire», la madre «vero asse portante e fulcro della famiglia», «una donna di poche parole con la porta di casa costantemente aperta», l’amata moglie Paola, i gemelli Matteo e Luigi a cui ha dato il nome «così» e il figlio Nicola, inconsapevole ispiratore della canzone “Al mercato di Porta Palazzo”: ": sulla piazza, sopra la neve che svapora, una ragazza partorisce: «alle sette e 45 / era già nato, era già fuori / alle sette e 45 l'hanno posato sul banco dei fiori". Interviene la guardia preoccupata, perché "questo è un caso di sgravidamento / sul suolo pubblico comunale». Ma non c'è niente da documentare se non che «un giorno di luna d'inverno / tutta la piazza ha voluto il suo fiore».
Racconti di migranti di ieri e di oggi che impongono a ciascuno di noi la stessa domanda che si pone Testa: «Come sarei io se avessi dovuto gestire un’emergenza definitiva da impormi la decisione di lasciare i miei luoghi, la mia gente, i colori e gli odori che mi accompagnano anche nei sogni?». La risposta Testa non ce l’ha, di certo «non abbiamo capito l’emergenza e abbiamo dimenticato che soltanto due generazioni fa partivano i nostri e trovavano gli stessi ambienti duri e inospitali che stiamo ricreando per chi arriva adesso in Italia», scrive nel libro che esce a dieci anni dall’omonimo disco vincitore nel 2007 della Targa Tenco. La prefazione di Erri De Luca, al quale nonostante la malattia non ha voluto far mancare il suo supporto durante il processo "per istigazione a delinquere" a Torino, suona come un addio all’amico: «Ciao socio, compare, fratello che non mi è capitato in famiglia e che ho cercato intorno, grazie di accomunarmi al libro della tua vita».
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