Nella pace della montagna ho cercato di immaginare un altro mondo possibile. Vorrei scrivere libri, ma senza preoccuparmi di quanti se ne venderanno; vorrei non avere bisogno di un editore come il mio al quale ho ceduto le mie parole, le mie ricerche e i miei pensieri, per un euro a copia venduta (e manco me le dà). Vorrei lavorare sul sito con i miei ritmi, con la mia fantasia, con le mie idee. Vorrei decidere se una cosa vale la pena di scriverla o no, vorrei avere il tempo di discutere, di sbagliare e di correggere, di uscire a farmi una passeggiata e poi rimettermi davanti al computer.
E invece no: una catena di montaggio dove se mi vado a fumare una sigaretta è solo perché ci sono colleghi gentili che prendono il mio posto.
So che non devo lamentarmi, che sono fortunata ad avere un lavoro anche se al netto, lontana dalla mia città e dalla mia famiglia, non guadagno più di 400 euro al mese.
Nella pace della montagna mi sono chiesta se ne vale la pena. La risposta è che non ho alternative.
E proprio qui sta il problema: sono costretta ad accettare quello che passa il convento, non ho possibilità di scelta. Forse se avessi vent'anni sarebbe più facile liberarsi dalle catene e trovare un'altra strada: la mia strada. A quaranta è pressoché impossibile: il senso di responsabilità verso una figlia adolescente, la paura di restare impantanata nei sogni, la malsana abitudine di non lasciare mai le cose a metà, la rabbia che mi costringe a non mollare una cosa che mi sono conquistata a fatica, l'orgoglio di non dover dire: "Avete vinto voi" mi farà uscire di casa lunedì alle 7 in punto. E si ricomincia.
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