il murales di Diego Rivera |
Ti posto di seguito un passo secondo me interessante e che non ti tornerà nuovo, visto che abbiamo afrontato l'argomento anche altre volte. Leggendo mi si sono aperti scenari del tutto sconosciuti su alcuni meccanismi e infiltrazioni, su contaminazioni del tutto "spurie" tra arte e potere, sempre nell'ottica di quale libertà espressiva noi siamo portatori e quale libertà sia effettivamente possibile... di Piero Flecchia "Il Poeta e gli Assassini" .
[…] Per cogliere nella sua drammaticità piena il conflitto tra arte e potere politico nelle società occidentali del XX secolo, nulla è altrettanto illuminante del confronto intorno all’arte pittorica, delle posizioni di Picasso e del miliardario Nelson Rockfeller, mai postesi a confronto diretto, e per questo più illuminanti, dove rivive in forme proprie al nostro tempo, ma entro la stessa logica e senso, il conflitto tra arte e potere politico che oppose Ovidio al Grande Assassinio (sul punto si veda in R. Syme, La rivoluzione romana, 1939, ed. it Einaudi).
Quello che nomi come “Coca Cola” o “pizza” individuano nell’universo planetario della ristorazione, in ambito artistico si individua ancora oggi planetariamente per il nome di Pablo Picasso, il genio che ha dominato l’arte figurativa del XX secolo; e per l’eleganza inarrivabile del suo segno grafico e per l’inesausta capacità di rinnovare, con le svolte più radicali, il suo linguaggio pittorico, aderendo nuove correnti, ma ogni volta apportandovi una quiddità migliorativa evidente, una innovativa originalità che gli ha sempre permesso di far sua la lezione stilistica assunta a modello, tra l’arte vascolare greca arcaica e l’espressionismo tedesco.
Questo ingegno, le cui opere hanno raggiunto alle aste internazionali cifre vertiginose, ha lasciato i più sorprendente dei testamenti dove afferma espressis verbis, che tutte le sue capovolte stilistiche, tra fauvismo e cubismo, non sono state altro che beffe giocate ad un mercato ed un pubblico di amatori ed esperti assolutamente incapaci di capire e distinguere tra mode e valori estetici, in ragione di una frivolezza e una povertà di valori. Egli afferma conclusivamente di non aver potuto fare altra scelta che quella del bizzarro e dell’irrisione, a non essere emarginato, costretto ad una poco neoromantica amara compagnia, la miseria, o a dover fare dell’arte un hobby e non la sua professione.
Per non essere emarginato, scrive Picasso nel suo testamento estetico, l’artista oggi deve trasformarsi in un personaggio della società dello spettacolo – per usare una posteriore metafora debordiana -, pur se nell’amara coscienza della verità universale dell’accusa dello shakespeariano Faust ai cortigiani: “Avete fatto di me un buffone miserabile a vendersi”, ma Picasso con la falstafiana segreta soddisfazione d’aver egli ridotto, davanti alle proprie opere, a buffoni i vari esperti e critici d’arte a lui contemporanei; e soprattutto mercanti e clienti, che egli ha in qualche modo punito, dando loro merci che sono tutte una caricatura del suo progetto estetico originario, anche se poi queste caricature restano pur sempre sotto l’inarrivabile eleganza del suo segno: ma il Picasso vero è quello degli arlecchini, quello è il Picasso che esprime la tragedia del XX secolo. Il Picasso successivo, come i grandi tragici greci che completavano ogni trilogia tragica con una commedia satiresca, cita anch’egli nello spazio figurativo uno rappresentazione buffonesca della tragedia del XX secolo, da grande pittore tragico trasformandosi in un Aristofane del pennello. Ma in questa rappresentazione buffonesca finiscono per restare imprigionati anche i grandi simboli tragici picassiani, tra ‘Guernica’ e la seriale ‘colomba della pace’.
Vero il sentimento del Picasso del testamento, un dato si impone: il linguaggio di irrisione ha imprigionato e condizionato lo stesso artista, la volgarità del mondo dei conoscitori e mercanti e acquirenti del mercato pittorico cosmopolita della Parigi della prima metà del XX secolo, fatto di ricchi americani e snob europei e tranfughi da tutte le rotte tra nazifascismo e bolscevismo, e trafficanti e mezzani e spie. Ma il testamento ci dice soprattutto che a modo suo Picasso si è dato una ragione puntuale e locale dell’impossibilità dell’artista di dire sul suo mondo con la voce autentica della propria arte, ergo la forma della propria verità.
L’impossibilità assoluta nel secolo dell’artista ad esistere in spirito di verità, per il Picasso, signore & maschera del grande carnevale dell’arte del XX secolo, se ha la sua causa contingente nella volgarità arrogante del mercato artistico, ha il suo fondamento spirituale nell’universo corruttivo borghese, denunciato con forza dal socialismo tardo ottocentesco, dal quale Picasso ha mutuato il proprio giudizio.Questa denuncia polemica anticapitalista e antiliberale del socialismo ottocentesco, era stata ripresa nel XX secolo, e fatta tema ossessivo della propaganda bolscevica: della quale un emblema è appunto la picassiana colomba della pace, espressione del sostegno dato dall’artista, l’esule della dittatura franchista, al bolscevismo. Ma già negli anni del Picasso stalinista e antifascista, era chiara agli intelletti liberi la deriva autoritaria dello stato russo guidato dal partito bolscevico, uscito vittorioso dalla rivoluzione d’ottobre. Una deriva totalitaria che il bolscevismo avrebbe esteso ai partiti socialisti europei satellizzati, e inoculò nella rivoluzione filo anarchica e libertaria spagnola dei tardi anni ‘930, culminata con i massacri di Barcellona, in cui una vittima del terrorismo del bolscevico, tra le tante del collasso della repubblica, fu il leader anarchico Camillo Berneri.
Per quale ragione Picasso, pur catalano, e quindi a conoscenza della tragedia catalana, non vide nel volto di Stalin una delle incarnazioni storiche del metastorico Grande Assassino, ma un campione degli oppressi?
Picasso viveva di pittura, ergo capiva, sapeva come si stava conformando il mercato della pittura, intorno ad un grande meccanismo di falsificazione dei valori estetici devastati, destrutturati per un ben preciso disegno del grande capitale finanziario. Un disegno soltanto compreso il quale, comprendere il senso dell’irrisione picassiana e il suo rifiuto di cogliere la meccanica criminale della dittatura bolscevica. E per comprendere cosa Picasso vedesse nel e del mercato pittorico dobbiamo andare nel cuore del mercato capitalista e a un episodio emblematico della sua logica nei rapporti con l’arte.
Il miliardario USA Nelson Rockfeller nel 1933 aveva ingaggiato per un murales al MOMA di N.Y. il pittore messicano Diego Rivera. L’artista, tra i personaggi affrescati, incluse Lenin. Il committente, venuto ad esaminare il procedere del lavoro, chiese all’autore di togliere la figura del leader rivoluzionario bolscevico, ma l’artista si rifiutò, sostenendo il primato della propria libertà nel creare.
Il miliardario non contestò questo diritto all’artista, semplicemente gli fece trovare il giorno dopo l’assegno con la somma pattuita di ventimila $, e gli fece comunicare che il suo rapporto col MOMA finiva là. Questo accadeva a fine del 1933, nel febbraio 1934 la direzione del MOMA, ovvero Nelson Rockfeller, decide la demolizione del murales. Ma se si limita il racconto ad un fatto di cronaca, si comprende ancora ben poco circa il nesso tra creazione artistica e potere politico, ovvero della stretta relazione che ne decide le forme e struttura: il grado di libertà dell’artista nel suo tempo. Al più si individua l’arroganza trimalcionesca di un ricco davanti ad un valore che offende la sua etica, la figura del rivoluzionario russo.
La Guerra Fredda è anni a venire, ma Nelson Rockfeller ha già scelto quale arte debba nominare il paesaggio del museo creato da sua madre, Abby Aldrich Rockfeller. Incomincia a collezionare e sostenere arte astratta, e poi l’espressionismo astratto: di questa corrente pittorica newyorkese arrivando ad inzeppare il museo di oltre 1200 opere, che poi il MOMA, negli anni ‘950, da posizioni monopoliste, esporterà in Europa come l’arte americana, condannando, è il giudizio della critica d’arte USA oggi, due generazioni di artisti figurativi non solo americani ad una condizione catacombale, dalla quale stanno riemergendo solo alla fine di primo decennio del nuovo millennio.
Cosa spingesse Rockfeller a puntare massicciamente sulla pittura astratta, lo chiarisce lo scontro con Rivera, ma imporre l’abrsione dei riferimenti sociali della pittura non fu semplice, perché bisognava in primis liquidare il pregiudizio figurativo, ben radicato nella clase politica USA, che insorse conro i contributi di stato per organizzare ed esportare in Europa, nel 1947, la prima mostra dell’avanguardia americana: OKeeffe, Gorky, Pollock…
Davanti al divieto dei politici a sostenere un’arte che paradossalmente accusavano di filo comunismo, Rockfeller ricorse alla CIA per sovvenzionare l’operazione, mentre un agente CIA di alto livello e Raffinata cultura, Daniel Joelson si trasferiva sotto copertura in Svizzera. E da qui incominciava a far scorrere un fiume di denaro nella direzione della cultura di sinistra anticomunista a sostenere le riviste e le opere , attraverso la creazione dello storico “ Congresso per la libertà della cultura”, con sede centrale a Parigi e filiali in tutti i paesi europei, e un comitato dirigente sotto la direzione di Bertrand Russel, composte da personalità del calibro di D. de Rougemont, I. Berlin, M. Mc Carty, R. Aron, H Arendt, E. Cailloi e i nostri Silone, Chiaromonte, Codignola che diffusero la loro critica da sinistra al bolscevismo con la rivista “Tempo Presente”.
La CIA investì nella cultura anticomunista radicale un fiume di denaro attentamente lavato, proprio come la mafia il denaro del narcotraffico, attraverso le grandi fondazioni culturali quali quella della Ford o i Sindacati, perché se mai uomini come il filosofo Bertand Russel o il nostro Chiaromonte avessero sospettato l’origine di quel denaro, avrebbero immediatamente messo in crisi il “Congresso per la libertà”. Questo accadrà quando una rivista sorta per la nuova cultura radicale californiana “Ramparts” avvierà un’inchiesta sui fondi versati alle riviste culturali negli USA, scoprendo che la “Partisa Review”, la rivista dei trotzchisti, era sovvenzionata copertamente dalla CIA: che dopo aver cercato invano di fermare l’inchiesta, - sovvenzionando riviste politiche aveva violato la legge che vieta alla CIA d’intervenire negli affari interni USA – si vide costretta a pubblicare, - si veda sul Sunday Evening Post nel giugno del 1967 – un esatto resoconto dei contributi versati in nero alla cultura. In Europa la conseguenza fu la crisi del “Congresso della libertà” e delle riviste per quel canale sovvenzionate. La fine dei contributi CIA, in ambito culturale, porto al rapido riemergere in Europa, e soprattutto in Italia, dell’egemonia di correnti intellettuali filo russe per tutti gli anni ‘970-80, appena incrinata dalla eco della primavera di Praga e dagli iscritti del dissenso russo.
Tornando alla vicenda pittorica, ancora nel 1954, solo per l’imperioso intervento del direttore della CIA A. Dulles, H. Luce, il proprietario di “LIFE”, allora il maggior rotocalco del pianeta concesse la copertina a J. Pollock un ampio servizio della sua arte di molte pagine dove si declamava il pittore il Michelangelo del XX secolo.
Con l’espressionismo astratto newyorkese, o informale, per dirla con un vocabolo creato dalla critica d’arte francese, il bilancio dell’import-export pittorico degli USA verso l'Europa va per la prima volta in attivo, mentre già nel 1974, dopo l’inchiesta di ‘Ramaparts’, Eva Cockroft, scriveva su ‘Arteforum’: “ I legami tra la politica della guerra fredda culturale e i successi dell’espressionismo astratto non sono per nulla casuali…Furono messi a punto da alcune delle più influenti figure che controllavano la politica museale e che sostenevano tattiche intelligenti di guerra fredda per ottenere l’appoggio degli intellettuali europei…E’ davvero difficile sostenere che gli impressionisti astratti semplicemente si trovarono a dipingere “durante” la guerra fredda, e non ‘per la guerra fredda’…- in E. Cockroft, "Espressionismo astratto della guerra fredda”.
L’espressionismo astratto newyorkese è in primis la pietra tombale sul mito ottocentesco di un’arte capace di vita autonoma e separata, in opposizione aperta, se necessario fino allo scontro, on la classe dirigente politica. Detto altrimenti, non esiste neanche in ambito artistico, dietro lo scudo della creatività, di grandi personalità isolate contro l’ordine olimpico, capaci di vanificare i fulmini.
La vicenda dell’espressionismo astratto di newyorkese dice che quanto più acquista chiara coscienza della natura del potere politico, tanto meno l’artista può opporvisi frontalmente, la sua sola linea di resistenza praticabile l’elusione e l’allusione, e un artista cosciente dei nessi arte-potere politico fu Pablo Picasso, la cui duttile attività creativa dice quanto l’astrattismo fosse senza avvenire, in quanto pittoricamente di poco significato. Infatti, nell’arte del più grande pittore del XX secolo, quel Pablo Picasso nelle cui opere ritroviamo tutti i movimenti pittorici del ‘900 rivisitati e reinventati, tra postimpressionismo fauvista e neo classicismo, è completamente assente il momento astrattizzante.
Picasso rifiuta l’astrattismo in quanto negazione della dimensione etica e critica della comunicazione pittorica, ovvero sua completa riduzione a ornato problematico decorativo, come appunto si realizza nell’Islam per l’interdizione alla figura umana: che non ha portato alla pittura di paesaggio, ma alla morte della pittura, in quanto vi ha soppresso la sua funzione centrale conoscitiva: la riflessione sull’uomo (‘essere umano’ n.d.r.). […]
Nessun commento:
Posta un commento