Ha dedicato il suo libro «ad amici e nemici» perché secondo lei sono intercambiabili. Negli anni Settanta, all'inizio della carriera, la accusavano di andare contro le convenzioni, oggi di far parte del mainstream. Lei è Marina Abramović, settant'anni festeggiati il 30 novembre scorso al Guggenheim Museum, pioniera della body art, che ha appena pubblicato per Bompiani (a cura di James Kaplan, pp. 414, euro 19) la sua autobiografia: la storia di una donna ribelle e sensuale, educata nella Jugoslavia comunista (è nata a Belgrado nel 1946) da due partigiani, eroi di guerra, secondo modelli rigidissimi per prepararla ad “Attraversare i muri”, come recita il titolo del libro. Una donna che ha amato e sofferto molto; che ha ottenuto i massimi riconoscimenti vivendo una vita senza compromessi al prezzo di una estrema povertà e isolamento. Una donna che a 14 anni giocava alla roulette russa con la pistola carica di suo padre e che, disperata per i tradimenti del suo compagno di vita e di arte Ulay, ha accettato di far l'amore a tre con la sua amante, soffrendone da morire.
«Dietro alla super Marina, al guerriero che in pubblico sopporta qualsiasi ordalia, c' è una Marina insicura, incasinata, che da ragazza si sentiva brutta e goffa: naso troppo grande, occhiali troppo spessi, scarpe ortopediche per i piedi piatti. E da grande si sente brutta e vecchia, rottamata, ogni volta che un uomo l' abbandona», confessa in una intervista l'artista che è stata dodici anni con il performance artist tedesco Frank Uwe Laysiepen, detto Ulay (si lasciarono nel 1989 con una performance memorabile: camminarono lungo la Grande Muraglia per 2.500 chilometri ciascuno fino all' incontro in cui si dissero addio), e che si è sposata (per poi divorziare) con l'artista italiano Paolo Canevari.
Chi non l'abbandona mai è invece il suo pubblico. Sono gli spettatori a darle la forza, il coraggio e la determinazione: spettatori che finiscono per sentirsi talmente parte della performance da trasformarsi essi stessi in opera d'arte. Sono loro che hanno fatto ore e ore di fila per partecipare a The artist is present al MoMA di NewYork (500mila visitatori, di cui ben 1.400 si sono seduti al tavolo dove lei è rimasta per 700 ore, senza muoversi, limitandosi a guardare); sono loro che sono corsi a salvarla dopo lo svenimento a causa della mancanza di ossigeno in Rhythm 5, dove stava sdraiata entro una stella di fuoco (era il 1974), o dal congelamento mentre era stesa su una croce di blocchi di ghiaccio (Lips of Thomas, 1975); sono loro quelli che nel 1977 a Bologna hanno attraversato i corpi nudi di Marina e di Ulay nello stretto ingresso della Galleria d' Arte Moderna.
A Napoli, era il 1975, Marina Abramović si consegnò invece letteralmente nelle loro mani come oggetto: mise su un tavolo 70 attrezzi che potevano essere usati a piacimento su di lei (c' erano anche delle lamette e una pistola carica). Tutto questo per sette ore: ci fu chi la toccò nelle parti intime, chi la ferì, chi le tagliò i vestiti; qualcuno le succhiò anche il sangue dal collo.
In quella stanza l' artista rischiò la morte e lo stupro, ma qualunque cosa accadeva lei lo accettava e lo subiva senza fare niente, nonostante il dolore.
Ecco, il dolore: quello che ha imparato a dominare e a trasformare in energia positiva illimitata nelle sue lunghe frequentazioni dello sciamanesimo e delle filosofie orientali. «Il dolore è un muro, straziante, insopportabile», sostiene, «ma chi riesce a trapassarlo accede a un diverso stato di consapevolezza». Lei si è fatta frustare a sangue; ha urlato fino a perdere la voce; ha stuzzicato un pitone che poi alla fine ha desistito ed è andato via; si è ferita giocando a colpire velocemente gli spazi tra un dito e l' altro della sua mano spalancata su un foglio bianco (Rythm 10, la sua prima performance nel 1973); è rimasta sei giorni seduta su una montagna di ossa putride, pulendole una per una, come a lavar via le atrocità della guerra nei suoi Balcani (con Balcan Baroque vinse il Leone d' oro alla Biennale di Venezia del 1997).
Del resto, la sopportazione del dolore l' aveva sperimentata fin da piccola. «Prima eroi di guerra, poi membri di rilievo del Partito, i miei genitori erano fissati con il coraggio, la disciplina marziale, la determinazione. Siccome ero terrorizzata dall' acqua, a sei anni mio padre mi buttò giù dalla barca e si allontanò a remi: a furia di bere e scalciare, imparai a tenermi a galla. Mia madre invece era ossessionata dall' ordine e dalla pulizia: la notte mi svegliava urlando, se dormivo scompigliando le coperte. E al minimo sgarro mi picchiava fino a farmi blu», racconta l' Abramovic, ammettendo che «quei maltrattamenti mi hanno fatto diventare quel che sono. Devo il mio successo a quelle regole umilianti, alle pene fisiche, allo spauracchio di mia madre».
E alla sua terra, cui ha dedicato anche la video installazione Balkan Erotic Epic (si trova in rete). Nel breve film sono rappresentati i riti pagani nei Balcani descritti in molti testi dei secoli XIV-XVI - alcuni dei quali vengono praticati tutt' oggi - dove organi sessuali, maschili e femminili, sono usati come strumenti taumaturgici, per curare malattie, per favorire la fertilità, per comunicare con gli dei. Marina recitava la parte di un professore-narratore che descriveva i rituali prima di mostrarli.
Lei stessa appare in un paio di scene: in una era a seno nudo, con i capelli pettinati in avanti in modo da coprirle la faccia; tra le mani teneva un teschio con cui si colpiva la pancia come un'ossessa. «Sesso e morte», spiega, «nei Balcani sono sempre pericolosamente vicini l'uno all'altra».
E a proposito di morte, scrive: «Ho sempre pensato che la morte dovesse essere una festa. Si entra in una nuova dimensione». Ed ecco perché nel 2004 comunicò a un avvocato le disposizioni per il suo funerale che dovranno essere scrupolosamente rispettate perché dopotutto, come lei stessa puntualizza nel libro, «si tratterà della mia ultima opera d' arte». L' artista vuole che vengano realizzate tre tombe: una a Belgrado, una ad Amsterdam e una a New York. Il suo corpo dovrà essere seppellito effettivamente in una delle tre, ma senza rendere noto in quale. Altro desiderio è che durante il suo funerale il suo amico Antony Hegarty canti My Way nello stile di Nina Simone. «Non mi ha detto di sì», rivela la Abramovic, «ma penso che quando morirò sarà così triste che si sentirà in dovere di farlo. Ci conto».
Nel frattempo ci sono un sacco di cose da fare: mentre sta lavorando a una serie di sette video-installazioni in cui lei racconta e inscena la morte di sette eroine della lirica interpretate da Maria Callas, ha già in calendario una retrospettiva a Stoccolma, dove verranno esposti per la prima volta anche i disegni degli esordi, diverse mostre in Danimarca, Svizzera, Germania e Cina. E anche uno spettacolo per sole donne in Qatar.
«Non esistono ostacoli insuperabili», conclude nei ringraziamenti nel libro, «se si ha la forza di volontà e si ama ciò che si fa».
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