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martedì 21 marzo 2017

«È morto Pollock! Sono io il più grande»

Primi anni Cinquanta. Seduti sul marciapiede davanti a un bar del Greenwich Village di New York, due artisti visibilmente ubriachi, bevono dalla stessa bottiglia. Si scambiano ad alta voce complimenti del tipo: «Sei tu il più grande pittore d’America», diceva uno. «No, no sei tu il più grande pittore d’America», risponde l’altro.  Il teatrino va avanti fino a quando uno dei due perde i sensi.  Era Jackson Pollock . L’altro era Willem de Kooning
Erano amici. Ma per loro la “grandezza” era un’autentica ossessione, era la lotta per trovare un posto di rilievo sul mercato, per chi riusciva a spingersi più in là nella sperimentazione artistica. Così, benché si stimassero e nutrissero sentimenti di affetto, erano “rivali”. Successe che Pollock, rispetto all’immigrato De Kooning, venne usato dal potere come prova del vero talento americano rispetto ai geni soffocati dalla censura del blocco sovietico; successe che De Kooning – che non riusciva a trovare una netta separazione tra linguaggio astratto e figurativo -  fosse  geloso del fatto che Pollock era diventato famoso facendo sgocciolare dal pennello che muoveva in aria disegnando nello spazio vuoto la vernice sulla tela appoggiata sul pavimento.  Pollock lo derideva e De Kooning soffriva.  Alla fine, quando nel 1956 Jackson guidando ubriaco perse il controllo della sua Oldsmobile, si schiantò contro due alberi e morì sul colpo, De Kooning esclamò: «È morto. È finita. Sono io il numero uno».  A meno di un anno dal funerale, De Kooning iniziò una relazione con la ragazza dell’amico-nemico, l’unica sopravvissuta a quell’incidente, e ne fece la sua compagna di vita.

sabato 11 marzo 2017

Follia e creatività. Nella storia dell'arte così come nella vita

Il cassetto di Alda Merini
«Entrate, ma non cercate un percorso. L’unica via è lo smarrimento», è la scritta che accoglie i visitatori del Museo della Follia inaugurato ieri a Salò. La attribuiscono al curatore Vittorio Sgarbi, ma lui stesso smentisce. «L’ho fatta mia, ma l’ha inventata la mia collaboratrice Sara Pallavicini», ha ammesso mentre presenta il Museo. Che non è un museo, ma una mostra itinerante che affronta il complesso tema della follia e che volutamente nasconde più di quanto esponga. «È tutto un inganno», ha fatto notare Sgarbi. Già l’inganno. Lo stesso che ha tenuto rinchiuse dentro i manicomi persone non classificabili, non omologabili, che rifiutavano di sottostare alle regole imposte dalla società. A loro è dedicata l’esposizione.  Ecco allora le streghe esemplificate da un dipinto di Tranquillo da Cremona (1837–1878), donne perseguitate solo perché non volevano sposarsi o fare figli; gli omosessuali rappresentati da due opere e alcuni disegni che Francis Bacon regalò all’uomo dei suoi desideri; i perseguitati politici che, ha spiegato Giordano Bruno Guerri, direttore del MuSa, «venivano ricoverati all’interno dei manicomi perché era la maniera più semplice per renderli inoffensivi, per neutralizzarli, evitando processi che avrebbero messo in luce la loro innocenza»; i poeti sognatori e visionari come Alda Merini presente in apertura di mostra con il suo cassetto pieno di sigarette, una collana di perle, biancheria intima, un rossetto, un taccuino, una penna.
L'olio di Adolf Hitler