lunedì 6 febbraio 2017

Lavoro in movimento: mutamenti, contraddizioni, alienazione

Monte Bettogli, Carrara: nelle cave di marmo uomini e macchine scavano la montagna. Il Capo controlla, coordina e conduce cavatori e mezzi pesanti utilizzando un linguaggio fatto di gesti e di segni. Dirigendo la sua orchestra pericolosa e sublime, affacciata sugli strapiombi delle Apuane, il Capo agisce in un rumore assoluto, che incredibilmente diventa silenzio. Quindici minuti di girato firmato da Yuri Ancarani che nel 2010, con un lavoro a metà strada tra il cinema documentario e l’arte contemporanea, ha voluto raccontare le “zone” meno visibili della vita quotidiana. Il video, chiamato Il Capo, insieme a Piattaforma Luna (che in 25 minuti racconta il lavoro di sei sommozzatori impegnati a 100 metri di profondità in una camera iperbarica) e a Da Vinci (realizzato in un dipartimento di chirurgia robotica dove un medico esegue un’intera operazione comandando i bracci di un robot tramite un joystick) sono presentati,insieme ai filmati e alle installazioni di altri tredici artisti di fama internazionale, fino al 17 aprile al Mast di Bologna nella mostra Lavoro in movimento. 

Diversi per poetica, provenienza, età (da Harun Farocki, che oggi avrebbe 73 anni, al 29 enne Thomas Vroege), tutti impegnati a narrare attraverso l’interpretazione filmata della realtà la trasformazione del mondo del lavoro dall’attività artigianale di un singolo individuo alla produzione di massa; dal lavoro umano a quello robotizzato; dalla produzione di energia a quello dei beni e servizi hi-tech; dallo sviluppo del prodotto alla contrattazione commerciale; dalle sfide di natura legale alle questioni strutturali ed esistenziali legate al sistema finanziario.
«Viviamo in tempi in cui la realtà è una dimensione in movimento – la percepiamo come un insieme di piani paralleli che si affiancano, si susseguono, si sovrappongono. La mostra», spiega il curatore della mostra Urs Stahel, «ne traccia un resoconto visivo attraverso una selezione di video che si configurano come piccole galassie, nelle quali la singola opera ha un valore autonomo ma trova il suo significato soprattutto in relazione alle altre, di cui diventa di volta in volta commento, critica, o tacita risposta». 
Ecco allora Chen Chieh-jen che tratta il crollo dell’industria tessile a Taiwan a cavallo del 2000: poichè le donne erano disponibili a collaborare al video a patto di non dover parlare, l’opera somiglia a una pièce teatrale muta messa in scena nei capannoni tra gli oggetti abbandonati dopo la chiusura. E poi Pieter Hugo che in Permanent Error racconta ciò che accade nella discarica dei rifiuti tecnologici di Agbloshie, nei pressi della capitale del Ghana, uno dei luoghi più inquinati del mondo: qui confluiscono, spesso illegalmente, enormi quantità di rifiuti elettronici. Milioni di tonnellate di vecchi pc, tv, telefoni cellulari che sono fonte di sostentamento per migliaia di ghanesi che si guadagnano da vivere bruciandoli ed estraendo metalli da rivendere (rame, ottone, alluminio, zinco) ma i fumi e i residue tossici prodotto dai fuochi contaminano l’aria, l’acqua, la terra, le persone e gli animali. 
Il turco Ali Kazma (classe 1971) ha invece girato uno dei suoi video, Household Goods Factory, all’interno degli stabilimenti dell’azienda di design italiana Alessi: gli operai, adattandosi al ritmo serrato delle macchine, rifiniscono a mano ogni pezzo. Il risultato è l’umanizzazione del processo produttivo. L’altra opera O.K. 2010 loop, ritrae in una proiezione video a sette canali, un giovane impegato che appone a ritmo frenetico un timbro su una pila di fogli di carta in un’operazione a metà strada tra documentario e performance art: mostrandoci un uomo che lavora alla velocità di una macchina, l’artista sembra invitarci a rallentare il nostro ritmo quotidiano e ad apprezzare i gesti e le azioni che costituiscono l’essenza viva del lavoro.
Ad Nuis, in Oil & Paradise esamina con sguardo ironico l’ex stato sovietico dell’Azerbaijan che in seguito al boom dell’industria petrolifera dispone oggi di una ricchezza apparentemente illimitata: l’artista con un mix di foto, riprese, telefonate, podcast mette in luce le assurde contraddizioni tra la vita dei nuovi ricchi e i comuni cittadini. Gaelle Boucand fa invece un ritratto enigmatico e paradossale di un anziano uomo d’affari sfuggito in Svizzera. In una lussuosa proprietà JJA racconta la storia del suo successo economico e le ragioni dell’autoesilio in un soliloquio dal quale emergono ossessioni e idiosincrasie. E ancora Willie Doherty, Farocki/Ehmann, Eva Leitolf, Armin Linke, Gabriela Löffel e Julika Rudelius.
Per essere compreso a fondo e assimilato, il percorso espositivo richiede del tempo in più rispetto alla norma: ciascun visitatore è invitato a trovare il proprio ritmo. «Solo così l’intensità, la forza e la ricchezza di queste immagini in movimento», spiega Stahel, «potranno restituire con forme, meccanismi narrativi e linguaggi visivi diversi l’evoluzione del mondo del lavoro e della nostra vita».

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