lunedì 20 febbraio 2017

Il linguaggio universale dell'arte negli omini di Keith Haring

A Pisa, la parete esterna della canonica della chiesa di Sant’Antonio è completamente decorata con un murale, il più grande mai realizzato in Europa. Su 180 metri quadri (10metri di altezza per 18 metri di larghezza) il maestro indiscusso della graffiti art Keith Haring nel giugno del 1989, insieme a studenti, artigiani e perfino i frati del convento, realizzò Tuttomondo: trenta monumentali figure incastrate tra loro che invadono tutto il muro senza finestre con l’unico scopo di simboleggiare la pace e l’armonia del mondo. C’è un cane che abbaia, un bambino carponi, un uomo che corre sulle scale e un altro, giallo, che cammina e che potrebbe essere lo stesso Haring, ma c’è anche la “croce pisana” realizzata da quattro figure umane unite all’altezza della vita; un uomo che sorregge sulle spalle un delfino, una scimmia e un volatile. E ancora: ci sono le forbici rappresentate come l’unione di due figure umane che tagliano in due un serpente; c’è una donna con in braccio un bambino e un uomo con un televisore al posto della testa simbolo del contrasto tra la naturalità della vita e la tecnologia che ne stravolge i ritmi.

Nonostante venga spesso etichettato come un artista “leggero”, Keith Haring portava avanti un discorso sociale e politico di grande forza e questo affresco, realizzato un anno prima di morire a 31 anni di Aids, è considerato il suo testamento spirituale e artistico. Spirituale perché, partendo dall’idea che le immagini possano funzionare come le parole, la sua è un’arte di segni, simboli e icone, che per la loro stessa natura veicolano un messaggio chiaro, semplice, immediatamente comprensibile e in un certo senso universale capace di colpire nel profondo e suggerire riflessioni (i suoi colorati e gioiosi omini, ad esempio, si abbracciano, si amano e fanno l’amore fondendosi tra loro in un unico essere; in loro c’è la sua visione di un sentimento che non vede differenze di sesso, razza e ogni tipo di barriera). Artistico perché nel grande affresco di Pisa è chiaro lo studio dei grandi artisti che l’hanno preceduto: utilizzando modelli espressivi ispirati ai geroglifici egizi, ai pittogrammi giapponesi o cinesi, maya o indios, ma pure i simboli medievali e le visioni di Hieronymus Bosch, l’immaginario rinascimentale e l’arte del Novecento, l’artista inventò un linguaggio del tutto nuovo, ma ancora oggi di grande attualità.

E proprio questo aspetto dell’arte di Keith Haring è al centro dell’importante mostra che aprirà i battenti il prossimo 21 febbraio a Palazzo Reale, a Milano. Con 110 opere, molte di grandi dimensioni o mai esposte in Italia, la rassegna About Art per la prima volta rende il senso profondo e la complessità della ricerca di Haring (1958-1990) mettendo in luce il suo rapporto con la storia dell’arte che viene assimilata e integrata nei suoi dipinti, costruendo in questo modo la parte più significativa della sua ricerca estetica. Keith Haring è stato uno dei più importanti autori della seconda metà del secolo scorso; le sue opere percepite come espressione di una controcultura socialmente e politicamente impegnata su temi propri del suo e del nostro tempo: droga, razzismo, Aids, minaccia nucleare, alienazione giovanile, discriminazione delle minoranze, arroganza del potere. Haring ha partecipato a un sentire collettivo diventando l’icona di artista-attivista globale. Tuttavia, il suo progetto, reso evidente in questa mostra, fu di ricomporre i linguaggi dell’arte in un unico personale immaginario simbolico che fosse al tempo stesso universale per riscoprirla come testimonianza di una verità interiore che pone al suo centro l’uomo e la sua condizione sociale e individuale. È in questo disegno che risiede la vera grandezza di Haring; da qui parte e si sviluppa il suo celebrato impegno di artista-attivista e si afferma la sua forte singolarità rispetto ai suoi contemporanei. Proprio per questo le opere in mostra a Palazzo Reale si affiancano a quelle di autori di epoche diverse, a cui Haring si è ispirato e che ha reinterpretato con il suo stile unico e inconfondibile, in una sintesi narrativa di archetipi della tradizione classica, di arte tribale ed etnografica, di immaginario gotico o di cartoonism, di linguaggi del suo secolo e di escursioni nel futuro con l’impiego del computer in alcune sue ultime sperimentazioni. Tra queste, s’incontrano quelle realizzate da Jackson Pollock, Jean Dubuffet, Paul Klee per il Novecento, ma anche i calchi della Colonna Traiana e la Lupa Capitolina, le maschere delle culture del Pacifico, i dipinti del Rinascimento italiano e altre. L’esposizione, curata da Gianni Mercurio, sarà visitabile dal 21 febbraio al 18 giugno.

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