giovedì 27 ottobre 2016

Basquiat, il randagio maledetto di Brooklyn che diventò re



A 18 anni dormiva dentro i cartoni nei parchi dell'East Village, a Manhattan, e dipingeva graffiti sui muri di New York firmandosi SAMO: «SAMO è tutto», «SAMO come la fine della falsa filosofia, la fine dell’arte», «SAMO salva gli idioti», «SAMO è la religione che non ti fa sentire in colpa». Oggi i suoi lavori valgono cifre stratosferiche (il suo autoritratto è stato venduto a maggio da Christie’s a 57,3 milioni di dollari). In nemmeno un decennio Jean-Michel Basquiat, che morì nel 1988 di overdose a soli 27 anni, è diventato uno degli artisti più noti dei nostri tempi con il merito di essere riuscito a portare - insieme a Keith Haring -  il graffitismo dalle strade metropolitane alle gallerie d'arte e nei musei.
A lui è dedicata l’importante retrospettiva che aprirà i battenti il 27 ottobre prossimo al Mudec di Milano: una mostra che si inserisce nel percorso culturale che mette in relazione le collezioni etnografiche del Museo delle Culture e la cosidetta “arte primitiva” con i principali movimenti artistici del nostro secolo. Ecco allora 140 lavori selezionati per coprire la produzione artistica di Basquiat dal 1980 al 1987, per approfondire alcune tematiche ricorrenti nella sua opera come le radici afro-americane, la musica e il jazz, il desiderio di fama e riconoscimento, lo sport e la fragilità umana ma soprattutto per far conoscere ai visitatori la vita, le gioie e le insicurezze di questo giovane  pieno di talento, perso nelle proprie fragilità e in una società che lo acclamava come artista, ma lo rifiutava per il colore della pelle.
«Sono quasi famoso e non so disegnare. Dovrei preoccuparmene?», chiese un giorno Jean-Michel alla fidanzata Suzanne Mallouk. Uscì di casa e tornò con sette volumi su come disegnare cavalli, fiori, panorami. Li trovò divertenti e fece alcuni quadri copiando da lì. «Prendeva libri di mitologia, storia, anatomia, fumetti e giornali, estraeva le parole che lo colpivano e le metteva su tela. Ascoltava la televisione. Ascoltava le parole e le scriveva sui disegni», racconta Suzanne nel libro “Widow Basquiat” di Jennifer Clement (Mondadori). Basquiat era così: il suo stile, così semplice, fu da lui stesso definito “analfabetismo artistico”. Ma questo non vuol dire assolutamente che quei segni, quelle lettere cancellate, quelle pennellate non abbiano un significato e un senso profondo. «Quella di Jean-Michel Basquiat è una pittura drammatica alimentata dall’orgoglio di essere nero, dall’affermazione e dalla difesa dei valori etici e morali che si possono riscontrare nella cultura degli afro-americani. L’energia e la determinazione con cui egli ha affrontato questi temi sia sul piano dei contenuti sia su quello del linguaggio fanno sì che la sua sia un’arte epica», scrive Gianni Mercurio in uno dei saggi che compongono il catalogo della mostra del Mudec.  Insomma il primitivismo di Basquiat è frutto di una presa di coscienza politica, non solo un sistema di valori formali, estetici, feticisti e etnografici, come era avvenuto con le avanguardie europee. Le sue immagini sono una combinazione di elementi opposti, parole, simboli, immagini, gesti istintivi, suggestioni letterarie e popolari, personaggi dei cartoon e rituali voodoo, disegnati su tele, frigoriferi, ante di armadi e cartoline postali amalgamate con eleganza e brutalità in uno stile originale, riconoscibile.

«Non ascolto ciò che dicono i critici d'arte. Non conosco nessuno che ha bisogno di un critico per capire cos’è l'arte», ripeteva Basquiat. Eppure aveva bisogno dei critici, dei galleristi, dei colleghi e amici. Come Andy Warhol – uno dei primi a comprare i suoi lavori - che lo aiutò a sfondare nel mondo dell'arte come fenomeno mondiale emergente e con il quale collaborò per una serie di opere alcune delle quali esposte nella mostra al Mudec.   «Il “randagio di Brooklyn”, divenuto ormai “Re”, si illudeva di poter controllare il proprio lavoro ma», puntualizza  Mercurio, «era in realtà dipendente da quel sistema che rapidamente lo aveva creato e che, altrettanto rapidamente, avrebbe potuto farlo svanire. Nel corso di tutta la sua esistenza, infatti, lottò contro i fantasmi, lo spettro della droga, la solitudine, la paura di non essere più Famoso». Da notare a questo proposito sono i simboli da lui spesso raffigurati nelle sue opere come “simbolo di riconoscimento”: il copyright © e la corona a tre punte, ma anche le ossa e i teschi a testimonianza del malessere interiore di chi si sente “mangiato vivo”, sfruttato dai galleristi. Un esempio su tutti “To Repel Ghosts” del 1985, in cui raffigura se stesso con una croce al collo, seduto e con un bastone da sciamano in mano. Con questo dipinto, spiega Gianni Mercurio, Basquiat «esorcizza l’idea e riafferma con le armi della pittura e con i simboli la propria presenza, attingendo ancora una volta alle sue radici afro-americane e a quel sincretismo religioso cui allude mediante una citazione esplicita di figure bibliche».

«Basquiat aveva odore di pelle, pittura ad olio, tabacco, marijuana e cocaina», racconta ancora Suzanne Mallouk. «Indossava maglioni di lana fatti a mano e lunghi ponchi messicani. Non camminava mai in linea retta. Ovunque andasse, lui zigzagava. Non riusciva mai a far fermare un taxi. Nemmeno quando vestiva con i completi Armani e in tasca aveva 5.000 dollari».  Eppure Jean-Michel, forse senza neanche rendersene conto, stava stravolgendo il mercato dell’arte, la critica e l’arte stessa. L’uso della tela come il muro della città, il muro come un block-notes per appunti interiori gridati alla metropoli ha fatto scuola e ancora oggi è fonte di ispirazione per le nuove generazioni di artisti.

La mostra si potrà visitare fino al 26 febbraio 2017 in via Tortona 56.

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