martedì 31 dicembre 2013

#strettamentepersonale Un racconto di fine anno: l'Illuminazione


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«Chiudi gli occhi. Fai alcuni respiri profondi. Immagina di poter buttare fuori la tensioni e lo stress dal tuo corpo. Immagina di poter inspirare l'energia meravigliosa che ti circonda. Lascia che ogni respiro ti porti sempre più profondamente in uno stupendo stato di rilassamento».
Non era la prima volta che mi ritrovavo sdraiata sul lettino del dottor Penna. Almeno una volta a settimana avevo preso l'abitudine di prendermi quelle due ore tutte per me: un viaggio spirituale unico e fantastico che aveva già riportato alla luce ricordi dell'infanzia, emozioni, ma anche vite precedenti realmente vissute o solo immaginate, che mi avevano fatto capire tante cose della mia esistenza.
I ricordi portano alla comprensione, e la comprensione spesso porta alla guarigione, sosteneva il dottor Penna. E io da un anno a questa parte stavo decisamente meglio. Avevo cominciato ad accettare il mio carattere, avevo cominciato ad accettare il mio corpo, avevo cominciato ad accettare i miei limiti.

«Sei un narciso», aveva sentenziato il dottore dopo aver studiato la mia tipologia psicologica.
«Si sta sbagliando. Sono tutto tranne che narciso», avevo replicato seccata.
I test e le macchie di Rorschach però davano ragione al dottor Penna: continuavano a dare lo stesso risultato nonostante io cercassi di barare.
Io continuavo a non capire: il mito narra che Narciso era un giovane di rara bellezza amato e desiderato dalle ninfe, che ricambiava con cinica indifferenza. La dea Nemesi lo punì, non per la sua vanità, visto che non ostentava le sue doti, ma per la sua insensibilità e durezza d'animo. Lo fece innamorare della sua immagine riflessa in un lago. E per abbracciarla Narciso si tuffò e annegò. Secondo una versione del mito, egli non sapeva che quella fosse la sua immagine. Sul lago crebbe un fiore col capo chino, che da lui prese il nome. Era mia convinzione che per “narciso” si intendesse colui che si compiace di se stesso, colui che è convinto di avere doti superiori alla norma e le esibisce orgogliosamente, esponendosi all'ammirazione altrui. Tutto sbagliato, o quasi.
Il dottor Penna mi spiegò che “il narciso” invece ha bisogno dell'approvazione e dei riconoscimenti degli altri ed è interamente rimesso al loro verdetto. Ostenta vanità e sicurezza, ma intimamente teme giudizi negativi, e ne soffre. Manca di autonomia e il suo sé non è solido e strutturato, ma fragile e insicuro. Non solo. Il narcisismo si sviluppa a causa delle frustrazioni subite nell’età evolutiva, quando il bambino volge ad altri o ad altro le sue pulsioni ed è respinto.
Da qui il tentativo di riandare indietro nel tempo per richiamare alla mente conscia i problemi e i dolori che custodivo nell’inconscio. Avevo iniziato a fare sedute di ipnosi regressiva e mi ero vista bambina, mi ero vista prostituta, mi ero vista monaca, mi ero vista cameriera in una locanda alla quale davo fuoco, mi ero vista impiccata... Ora ero di nuovo pronta a compiere un altro affascinante viaggio nel mio “sé” e rivivere una delle mie vite precedenti.
«Ora rilassa tutti i muscoli. Rilassa i muscoli del viso e delle mandibole. Lascia andare tutta la rigidità e tutta la tensione di questi muscoli…
Rilassa i muscoli del collo e delle spalle…
Rilassa le braccia…
Rilassa completamente i muscoli della schiena, sia della parte inferiore sia di quella inferiore… Lascia andare tutta la rigidità e tutta la tensione accumulate in questi muscoli.
Rilassa i muscoli dello stomaco e dell'addome, per permettere alla respirazione di essere regolare e profonda…
Fa che i rumori e le distrazioni esterne rendano ancora più profondo il tuo livello di rilassamento.
Immagina che la luce fluisca nel tuo corpo attraverso la sommità del capo. La luce illumina il cervello e il midollo spinale, guarendo questi tessuti e rendendo ancora più profondo il tuo livello di rilassamento…
Lascia che la luce scenda giù lungo tutto il corpo, come una bellissima onda che raggiunge ogni cellula, ogni fibra, ogni organo facendo scomparire dolori, ansie e malattie…
Rendi la luce molto intensa e potente ovunque il tuo corpo abbia bisogno di guarire…».
«E lascia che il resto della luce fluisca sino in fondo ai piedi, in modo tale che il tuo corpo ne venga riempito completamente…
Ora immagina e percepisci la luce mentre circonda completamente il corpo, come se tu fossi avvolta in un bozzolo o in un alone di luce che ti protegge, guarisce, e rende ancora più profondo il tuo livello di rilassamento…
Adesso conterò alla rovescia da dieci a uno. Lascia che ogni numero ti porti più profondamente nello stato di rilassamento».
«Dieci… nove… otto… sempre più profondamente a ogni numero.
Sette… sei… cinque… sempre più in pace e rilassata…
Quattro… tre… così calma e rilassata.
Due… ecco ci siamo quasi…
Uno… bene».
«In questo meraviglioso stato di pace e tranquillità immagina te stessa mentre scendi una bellissima scalinata … giù, giù… sempre più profondamente… giù, giù… ogni passo rende il tuo livello di rilassamento ancora più profondo…
In fondo alla scala, davanti a te c'è un bellissimo giardino… un giardino di pace, bellezza e sicurezza… un luogo sacro…
Entra nel giardino e trova un posto in cui riposare…
Il tuo corpo ancora colmo di luce continua a guarire e a rimettersi in salute. I livelli più profondi della tua mente possono aprirsi. Puoi ricordare ogni cosa. Puoi sperimentare i livelli del tuo io pluridimensionale. Tu sei immensamente più grande del tuo corpo o del tuo cervello».
«Se ti senti a disagio con qualche ricordo, sentimento o esperienza durante questa meditazione, fluttua semplicemente sulla scena e osservala a distanza, come se stessi guardando un film. Se sei ancora a disagio, puoi decidere di non procedere con la regressione semplicemente aprendo gli occhi. Tornerai al tuo stato normale, nel pieno possesso delle tue facoltà fisiche e mentali.
Se non sei a disagio resta con le immagini e con ciò che senti. Hai sempre il completo controllo della situazione».
«Fluttua sopra il tuo corpo nel giardino… e viaggia fino a un'isola meravigliosa e antica, circondata da acque blu e turchesi… questa è un'isola di guarigione…
Puoi camminare sulla spiaggia bellissima… senti il calore del sole… senti la lieve brezza.
Incastonati sul fondo del mare, a breve distanza dalla spiaggia ci sono alcuni cristalli grandi e potenti… sono cristalli di guarigione. I cristalli conferiscono un'energia di guarigione all'acqua…
Resta nell'acqua per quanto tempo vuoi, a lungo o per poco… Puoi sentire nell'acqua il pizzicore dell'energia che guarisce…
La tua pelle e il tuo corpo assorbono l'energia trasmessa dai cristalli all'acqua… Il sole ti asciuga e ti fa stare bene...».
Quindici secondi di silenzio assoluto.
«Ora immagina di avere davanti una porta. Quando decidi di entrare ti troverai in una stanza buia piena di specchi che riflettono la tua immagine... Guardati... Sentiti attratto da uno solo o da tanti di questi specchi e mentre conti da cinque a uno entra».
«Se ti senti a disagio limitati a fluttuare sulla scena, a guardarla come se fosse un film. Ma se lo desideri puoi entrare a farne parte e viverne le emozioni intensamente. Mentre conti entra negli specchi… Entra nel riflesso che ti attira… Per aiutarti a comprendere e a rimuovere ogni blocco, ogni ostacolo alla tua pace, alla tua gioia, alla tua felicità interiore».
«Cinque… quattro… tre... entra nello specchio. Due… lo hai quasi attraversato. Uno… sei lì».
«Se hai un corpo guardati i piedi e nota cosa stai calzando. Scarpe, sandali, pelli o forse nulla
E guardati il corpo, guardati la pelle, i vestiti, le mani, la corporatura, l'incarnato
E guarda il luogo in cui ti trovi. Ci sono edifici? ci sono persone?
Trova te stesso
Dove sei?
Puoi spostarti dove vuoi
Dirigiti verso momenti significativi
Prenditi tutto il tempo che ti serve e trova le risposte
Puoi spostarti avanti e indietro nel tempo e scoprire cosa accade, cosa ti accade…
Puoi vedere tutto: passato, presente e futuro. Fai attenzione ai particolari
Sarai in grado di ricordare tutto».
«Conterò da dieci a uno e tu sarai sveglia e vigile, ritornerai nel pieno delle tue facoltà mentali, ti sentirai colma di un'energia bellissima, ti sentirai magnificamente. E ricorderai tutto».
Non so quanto tempo fosse passato quando sentii il dottor Penna parlare. Due minuti, un'ora, cinque ore, una vita...



Non mi ero mai accorta che sulla scogliera ci fosse quella fessura. Eppure conosco questa spiaggia e questi fondali come le mie tasche. Saprei dove mettere i piedi anche se mi avessero bendata. Ma la caverna no, non l'avevo mai vista. Se non fossi così certa che la magia esiste solo nei libri per bambini penserei che una strega nottetempo abbia aperto un varco nella roccia per fare di quell'antro la sua nuova casa.
D'inverno la baia è deserta, ma mai come questa mattina. Di solito incontro qualche pescatore che spera di portare a casa il pranzo. Di solito qualche avventuroso turista riesce a trovare la strada che dall'altipiano conduce alla spiaggia e si ferma a scattare uno foto ricordo di questo paradiso. Oggi non ci sono. Oggi non c'è nessuno. Nessuno che possa smentire la mia visione o confortarmi per l'inquietante scoperta. Non c'è neppure la mia ombra a tenermi compagnia.
Il silenzio è rotto solo dall'onda corta del mare. Non si sente neanche lo sgraziato verso dei gabbiani che con gran fracasso cercano tra la sabbia qualcosa da mangiare.
Sono sola con i miei pensieri e con l'ansia per quella ferita aperta sulla scogliera che non avevo mai visto prima.
Serve una barca per entrarci a meno che non voglia farmi una bella nuotata nell'acqua gelida di novembre. Il problema è che io non ho una barca.
Almeno fino a qualche secondo fa. Il tempo di immaginare il mezzo necessario per raggiungere la grotta e vedo a qualche decina di passi da me un vecchio mozzo capovolto sulla spiaggia. Mi avvicino, lo rovescio e scopro con mia immensa sorpresa che è perfettamente equipaggiato con i remi, la traversa che funge da sedile, la torcia nascosta nel mobiletto ricavato dentro la prua. Ci sono perfino una coperta e un accendino.
Senza troppo fatica trascino la barca in acqua e un attimo prima di bagnarmi i pantaloni salto a bordo pronta a soddisfare la mia curiosità.
Con le spalle al pallido sole autunnale remo per raggiungere il promontorio squarciato. Un centinaio di colpi sono sufficienti per veder sparire la spiaggia dalla quale ero partita avvolta tutta d'un tratto da un banco di nebbia. Come se una nuvola dispettosa avesse scelto proprio quel momento per nasconderla alla mia vista. La ferita nella roccia invece si mostra sempre più chiaramente: è un cunicolo basso con le pareti a picco, che permette al mare di insinuarsi nel ventre della scogliera, largo quanto basta perché una barca possa entrare. È comunque necessaria qualche manovra per evitare di sbattere a destra o a sinistra. L'oscurità non permette di vedere quanto è lungo, né tantomeno di capire dove porti.
Non ci ho pensato nemmeno un minuto e mi sono ritrovata a navigare in quell'antro buio senza prendere in considerazione che forse sarebbe potuto essere pericoloso.
Non so quanti colpi di remi abbia dovuto dare prima di ritrovarmi in una baia cieca: le pareti del cunicolo a un certo punto sono sparite e davanti a me c'è una spiaggetta di sabbia nera battuta dalle onde ammansite di quel poco mare che riusciva a entrare lì dentro. Un lembo di rena largo non più di dieci metri separa l'acqua salmastra dalla grotta che si apre nella roccia brulla che fa da quinta a questo palcoscenico naturale. L'entrata sembra illuminata da uno spot, invece è solo un raggio di sole che riesce a filtrare dalla vegetazione abbondante che copre la baia come un tetto e impedisce che dall'alto possa essere scoperta.
Devo riprendere fiato. Il cuore batte forte, pulsa talmente tanto che ho quasi l'impressione che voglia uscire dal mio corpo. Mi sento svenire, ma devo trovare la forza per portare all'asciutto la barca e metterla in un posto sicuro, ma allo stesso tempo strategico per prendere la fuga in caso di pericolo. In realtà di pericoli non ne vedo, ma non si sa mai. Mi hanno insegnato che non bisogna in nessun caso abbassare la guardia, a maggior ragione quando ti trovi in situazioni e luoghi che non conosci. E io questa baia non l'avevo mai vista nonostante consideri questa isola la mia casa.
Mi sdraio sulla rena nera e umida cercando di trarre energia dal vulcano che dorme qui sotto. La cura fa effetto: il cuore decelera, la testa non gira più. Resto così per diversi minuti provando a scacciare la fastidiosa impressione di vivere in un'altra realtà. Ma non ci riesco: la sensazione rimane e diventa sempre più potente quando entro nella grotta, che è tutt'altro di quanto mi sarei mai aspettata.
Nessun animale feroce c'è ad attendere lo sventurato che osa entrare nella sua tana. Nessun tanfo mi investe quando esco dall'apnea della sorpresa e riprendo a respirare. Nessuna strega mi trasforma in una statua di sale appena varco l'ingresso.
La caverna è più grande di quanto mi immaginassi. Due grossi bracieri accesi la illuminano. Quella che si rivela davanti a me è una vera e propria stanza arredata con arazzi alle pareti e tappeti al suolo che ne coprono quasi tutta la pavimentazione. Al centro c'è un divano accogliente senza spalliera carico di cuscini rivestiti di pregiati tessuti e un grande tavolo di legno massiccio apparecchiato per una sola persona. Una sola sedia sistemata a capotavola, un solo bicchiere di cristallo, un solo piatto di porcellana finissima, una sola forchetta d'argento, un solo coltello ben affilato sono pronti per essere usati al prossimo pasto. Nel mezzo una ricca composizione di frutta fresca: uva, mele, pere, arance, melegrane, castagne.
Una parete è completamente occupata da una libreria ricavata scavando delle nicchie alte e profonde nella roccia. È zeppa di volumi sistemati al contrario: non è il dorso ad essere messo in vista, bensì il taglio davanti come se ne volesse celare il titolo e l'autore. Sembrano libri antichi, vorrei tirarne fuori qualcuno per farmi un'idea del proprietario di quel tesoro, ma la mia attenzione viene attirata dall'arazzo appeso a fianco della libreria.
Sul fine tessuto è stato riprodotto Il Giardino delle Delizie di Hyeronimus Bosch. Un'opera straordinaria del pittore fiammingo presumibilmente realizzata alla fine del 1400, nella quale è descritta la storia dell'umanità attraverso creature fantastiche che si confondono con elementi reali, frutti comuni che vengono rappresentati in forme gigantesche e sproporzionate e uomini e donne impegnati in sfrenati giochi amorosi, in coppie o in gruppi più vasti, senza inibizioni o senso del pudore.
Con la torcia illumino quella meraviglia: al centro è rappresentata “la cavalcata della libidine attorno alla fontana della giovinezza” in un prato. In alto c'è il “labirinto della voluttà”, con lo stagno in cui galleggia l'enorme globo grigio-azzurro della “fontana dell'adulterio”. Nella parte bassa i personaggi gozzoviglianti giocano disinvolti in acqua o saltano sull'erba o cavalcano animali. La loro ricerca del piacere sessuale è continua e smodata, molti degli elementi che li circondano lo sottolineano: pesci, fragole e conchiglie sono tutti simboli di dissolutezza come gli uccelli che spiano e offrono una visione morbosa e ossessiva del peccato. Al centro del laghetto inferiore si vedono soltanto delle gambe aperte a sostenere un grosso frutto rosso. Dentro la torre rossa in basso c'è una giovane coppia insieme a un terzo uomo che mostra un enorme pesce. Nella grotta in basso a destra c'è una figura maschile quasi totalmente nascosta che indica una donna vicina, anch'essa coperta da una peluria simile a quella dei personaggi in piedi; l'uomo che punta il dito è l'unica persona ad avere dei vestiti ed è abbigliato con esplicita austerità. Forse è il committente dell'opera. Un uomo esegue una capriola sul proprio destriero mostrando gli organi genitali, azione compiuta per guadagnare l'attenzione delle femmine vicine, quasi mimando una danza di accoppiamento. Un cavaliere con coda di delfino naviga su un pesce alato, tenendo un bastone cui è appesa una ciliegia; la coda del cavaliere si piega sulla sua figura fin quasi a toccarne la testa, con esplicito riferimento all'Uroboro, simbolo dell'eternità. Poi ci sono una sirena, un tritone e quattro bizzarre colline-torri fatte come eccentriche costruzioni di vegetali e minerali, sullo sfondo di un cielo azzurro popolato da uccelli, angeli e mostri volanti.
Continuo a ripetere ad alta voce che è un capolavoro. Non è facile non restare ipnotizzati. La tentazione di toccarlo è enorme: passare le dita su quei fili intrecciati con tanta maestria è un modo per entrare a farne parte, per partecipare. Il tatto riesce ad amplificare i pensieri eccitanti evocati dalle immagini riprodotte sull'arazzo. Sfiorare quei corpi ricamati è un piacere che mio malgrado sono costretta a interrompere quando, all'improvviso, il tessuto pressato dalle mie dita non trova più il supporto della roccia. Dietro c'è il vuoto. Dietro c'è un'altra caverna.
Spostando il prezioso arazzo si apre infatti il varco che conduce in una ulteriore stanza. Con la torcia faccio luce: è più piccola ed è piena di armi. Ci sono spade, scimitarre, asce disposte con ordine vicino a pettorali, bracciali di cuoio, balestre e così via. Ma ci sono anche bottiglie, botti e cibo essiccato che pende da alcuni ganci fissati sul soffitto. Un vecchio lume a olio spento è piazzato su uno sgabello. Lo accendo con dei fiammiferi che ho sempre in tasca per via del vizio del fumo. Nel tremolio della fiammella mi rendo conto che quello è una sorta di magazzino. In un angolo ci sono delle coperte, in un altro delle corde spesse arrotolate con cura, della legna accatastata, degli orci di olio. In una cassapanca di legno scuro sono custoditi dei vestiti. Vestiti da uomo: un paio di pantaloni, una giacca, due maglioni, un passamontagna. Tutto nero. Prendo il maglione e affondo il naso nella lana irta e ruvida: sa di mare, di alcool, ma soprattutto di sandalo. Un'antica credenza popolare indiana afferma che nessuno spirito maligno possa entrare in un luogo impregnato del profumo di sandalo. Forse l'uomo che indossa questo maglione lo usa per questo. Mentre continuo a respirare quest'odore buono lo immagino muoversi tra le sue cose custodite nella grotta: lo vedo mentre sguaina una spada, quando la fa vibrare in aria e brandisce un ipotetico nemico; lo vedo mentre si versa da bere, mentre gusta il vino rosso dopo averlo fatto girare con cura nel calice; lo vedo mentre sceglie un volume dalla libreria; lo vedo mentre si sdraia sul divano...
Mi tolgo la felpa che indosso e mi infilo il maglione . Spengo il lume. Torno nella stanza principale. Mi siedo su quel sofà che presumo sia anche il suo giaciglio. Abbracciata a uno dei cuscini mi guardo intorno. Ci sono altri arazzi. Anche là dietro potrebbero esserci delle sorprese.
Provo con quello che racconta di Venere seminuda reclinata su un ammasso roccioso e circondata da tre amorini alati, uno dei quali le tocca maliziosamente i capezzoli. Da un angolo del pergolato in cui è ambientata la scena sbucano la testa, una spalla e un braccio di un satiro, ben caratterizzato tramite corna, orecchie caprine, barba, un’espressione grottesca e lasciva sottolineata dalla bocca semiaperta, intento a spiare la donna. Potrebbe essere benissimo un arazzo di Giulio Romano per come è fatto bene, ma la curiosità di sapere se c'è qualcosa dietro è più forte del mio amore per l'arte.
Lo sposto, ma dietro non c'è un'altra grotta: c'è solo un grande specchio incorniciato da un legno dorato, intagliato in foglie e fiori intrecciati, che riflette la figura di una donna con i cappelli arruffati, lo sguardo perso e una torcia in mano che spara la luce contro il suo alter ego. Risistemo l'arazzo a copertura dello specchio e mi sposto davanti a quello su cui è ricamato a grandezza quasi naturale il peccato originale. Sembra un Cranach: la nudità dei protagonisti, di notevole precisione anatomica, è esibita con spontaneità, ma entrambi reggono rametti che coprono le rispettive parti intime. Eva tiene in mano una mela, il frutto proibito, con il serpente appeso a un ramo dell'albero della Vita che la insidia dall'alto. Adamo ha una posizione sciolta e disinvolta, come se fosse appoggiato al bordo dell'arazzo con il gomito destro sollevato. Bellissimo. Questa volta dietro non c'è nient'altro che roccia.
L'ultimo arazzo si trova nella parte meno illuminata della caverna, sulla parete di fondo. Solo andando vicino si comprende il soggetto: sono i personaggi della Primavera del Botticelli. Di tutti e nove le mie preferite sono le tre Grazie. Il loro movimento di alzare e abbassare le braccia ricorda filosoficamente i principi della Liberalità, in cui ciò che si dà viene restituito. Ma possono rappresentare anche tre aspetti dell'amore: la Voluttà, dalla capigliatura ribelle; la Castità, dallo sguardo malinconico e dall'atteggiamento introverso; e la Bellezza, con al collo una collana, che sostiene un' elegante prezioso pendente, e con un velo sottile che le copre i capelli. Anche questo arazzo è stato fatto in maniera impeccabile da abili artisti di un'altra epoca. Lo sguardo indugerebbe per ore sulla maestria di chi ha riprodotto sul tessuto l'infinita varietà di specie vegetali e il ricchissimo campionario di fiori: nontiscordardimé, iris, fiordaliso, ranuncolo, papavero, margherita, viola, gelsomino, che Botticelli aveva dipinto sulla tavola oggi appesa agli Uffizi. E spostarlo per vedere cosa celasse dietro meritava davvero.
Dietro la Primavera c'è un'altra grotta. Anzi “la grotta”, quella che in cuor mio speravo di trovare non appena varcata la soglia della caverna.
Ho trovato la stanza del tesoro. La torcia vaga emozionata nel piccolo antro illuminando casse piene di cose preziose: una è stracolma di gioielli, collane cariche di smeraldi, rubini, zaffiri, e poi anelli, diademi; in una sono sistemati lingotti d'oro da un chilo ciascuno; un'altra contiene l'argento foggiato nelle forme più diverse, dai vassoi ai candelabri, dai vasi alle posate; un'altra ancora è riempita di monete fuori uso. In un cofanetto appoggiato su un cuscino di velluto nero ci sono poi i diamanti: alcuni sono ancora grezzi, ma la maggior parte, e sono tanti, già tagliati con le loro 57 facce che brillano come stelle in una buia notte d'estate. Alcuni sono di una grandezza esagerata: ci sono esemplari che farebbero sfigurare il Regent e il Sancy appartenuti a Luigi XVI di Francia.
La tentazione di prenderne una manciata, infilarmela in tasca, e andarmene da questo posto surreale è forte. Potrei risolvere tutti i miei problemi economici, potrei lasciare il lavoro e smettere di preoccuparmi di come sbarcare il lunario per il resto della mia vita. Potrei, ma non lo faccio.
Quello che più desidero in questo momento è conoscere il Pirata che ha accumulato il tesoro, l'uomo che vive qui. Non andrei da nessuna parte senza averlo prima guardato negli occhi, senza averci parlato, senza essermi saziata delle risposte che dovrà, in qualche modo, darmi.
Risistemo la Primavera in modo che non si accorga che ho violato la sua stanza del tesoro e mi sistemo sul divano ad attendere la sua entrata in scena in questa caverna delle meraviglie. Prima o poi dovrà ritornare nel suo nido. Prima o poi dovrà venire a portare o prendere qualcosa. Prima o poi vorrà controllare se tutto è rimasto così come lo ha lasciato. Io lo farei.
Cercando di immaginare quell'uomo che ha scelto con cura questi arazzi, che ha sistemato questa caverna come una reggia, che ha raccolto tutti questi libri credo di essermi addormentata. Non so quanto tempo sono rimasta rannicchiata , abbracciata con me stessa, con il maglione del Pirata, coperta da questi morbidi cuscini su questo divano accogliente. Il sonno ristoratore viene interrotto da un rumore sordo. E' caduto un volume dalla libreria.
Quanto tempo è passato? Un'ora, una giornata, una vita. Quando apro gli occhi cerco di ritrovare i miei punti di riferimento: la luce che entra dalla finestra sempre aperta d'estate e d'inverno, la luce azzurrina del computer, lo sguardo severo di Emma Goldman che mi guarda dietro i suoi occhialetti tondi o quello irriverente di Gaetano Bresci accompagnato dalla scritta “La condanna mi lascia indifferente”. Niente. Sono ancora qui, in questa grotta che ha tutto l'aspetto di un sogno. Sono ancora qui ad aspettare il mio Pirata. Sono ancora qui, nonostante questa non sia la mia vita. Sono ancora qui con indosso un pullover non mio. Sono ancora qui sotto una scogliera senza nessuna voglia, né l'urgenza, di andarmene magari facendo incetta del tesoro che sta nell'altra stanza.
Lascio controvoglia questo comodissimo divano. I bracieri ancora ardono e riscaldano la caverna quanto basta a rendere i muscoli pronti ad affrontare nuovi movimenti. Dall'alzata sistemata al centro del grande tavolo prendo una bella mela rossa. La addento: è compatta, croccante, succosa. Il gusto è dolce, leggermente acidulo, aromatico. La assaporo lentamente ed è come se non avessi mai mangiato un frutto così buono. Una mela che toglie la fame, che quieta il mio stomaco.
Appagata da quella delizia vado a vedere quale libro ha deciso di cadere mentre stavo dormendo.
Εὐδαιμονία c'è scritto sulla copertina dell'antico volume rilegato in cuoio e con fregi zoomorfi impressi a secco. Dalle mie, seppur poco approfondite, conoscenze filosofiche so che l'eudemonismo, al di là del nome complicato, è la dottrina che considera naturale per l’uomo la felicità e assegna alla vita il compito di raggiungerla. Assolutamente da non confondere con l’edonismo che pone tale compito nel conseguimento del piacere immediato, ci ammoniva la professoressa del liceo. L'eudemonistica è la dottrina socratica del ‘bene-attraente’ e dell’identità di virtù e di felicità, ma è anche l’ideale di Aristotele per il quale la felicità è perfezione individuale, come attuazione delle proprie capacità, il cui culmine si raggiunge nell’esercizio dell’attività razionale. Poi c'è Epicuro, ma pure la morale cristiana quando pone la beatitudine quale premio della virtù.
Perfetto, mi dico. Avrò da leggere per parecchio.
Ma con mio sommo dispiacere, sfogliando il libro mi accorgo che è scritto in una lingua che non capisco, che non conosco. Il senso di frustrazione fa il paio con la rabbia per la consapevolezza che ignorerò per sempre i segreti custoditi in quel trattato. A meno che non trovi tra gli altri volumi un traduttore per quello che ormai nella mia testa è l'elisir contro il male di vivere.
Senza nessun ordine logico comincio a prendere dalla libreria i testi antichi del Pirata. Li sfoglio ma con mia immensa delusione mi accorgo che nessuno, ma proprio nessuno, è decifrabile. Sono tutti scritti in un linguaggio a me sconosciuto.
Scoppio in un pianto dirotto. Singhiozzo come non mi succedeva da quando ero una bambina. Ma non è un capriccio. Allora come adesso è la risposta a un dolore fisico. Lo stesso di quando da piccola mi ero spappolata il polpastrello del dito medio dopo averlo infilato nella serratura di una porta chiusa che volevo a tutti i costi aprire mentre dall'altra parte dell'uscio un compagno di scuola abbassava la maniglia. Oggi è come se le emozioni accumulate finora abbiano trovato tutte insieme una via d'uscita dal mio corpo, dalla mia mente: l'esondazione di un fiume in piena che con violenza travolge tutto.
Piango e maledico il Pirata sconosciuto che non è ancora arrivato. Piango e immagino la vendetta per questa lunga attesa. Piango e vorrei solo essere abbracciata e rincuorata. Accasciata per terra su uno di quei pregiati tappeti che ricoprono la caverna, circondata da libri inutilizzabili, piango tutte le lacrime del mondo per un uomo che neanche conosco.
La vanità riesce dove la ragione ha fallito: torno in me quando immagino il mio viso imbrattato dall'eyeliner e dal mascara che i miei scomposti lamenti hanno fatto colare da occhi e ciglia.
Lo specchio nascosto dietro l'arazzo di Giulio Romano fa al caso mio.
Mi sposto con la determinazione di chi sta per compiere un'impresa solenne davanti al capolavoro manierista. Lo sposto con cura in modo che possa specchiarmi e trovare il modo di darmi una sistemata.
È stato nel momento stesso in cui ho visto riflessa la mia immagine che l'ho sentito.
Il Pirata è dietro di me.
Lo specchio mi restituisce la sua figura alta, possente. Non riesco però a vedere il suo volto: la luce ballerina dei bracieri è insufficiente a distinguere i suoi lineamenti.
Ma lo sento.
Sento il suo profumo.
Sento il suo respiro sul mio collo.
Sento il suo corpo attaccato al mio.
Le sue braccia avvolgono le mie spalle e le mani scendono incrociate sul mio petto. Mi stringe in quell'abbraccio che ho tanto desiderato.
Lo vedo nello specchio e lo sento sulla pelle nonostante il maglione.
Starei ore a godere di quella stretta che guarisce. Ma d'istinto faccio altro.
Mi giro e lo bacio senza neanche guardarlo in faccia.
Lo bacio e mi tolgo il suo pullover di dosso. Lo bacio e mi sfilo i pantaloni. Lo bacio e rimango nuda.
«Cademmo con la lentezza con cui ci si rotola in sogno. Cademmo, e continuammo a cadere».
«Nel letto i nostri corpi si guardano come due eserciti che si scrutano con ansia e timore».
La danza immobile di Manuel Scorza” detta le mosse della nostra battaglia.
«La baciai, la baciai, la baciai».
«Per dare esempio e fiducia al loro esercito, i comandanti incitano con i petti i dardi avversari. E, quanto più inermi si mostrano agli occhi dei loro uomini, tanto più invincibili sembrano. E lo sono».
«La mia saliva si mescolò di nuovo con la saliva della sua saliva, rettile e uccello, lacrima e miele di mare. La sua lingua mi circondò l’orecchio e scese lungo il collo, il calore del mio petto divenne insopportabile. Con sguardo enigmatico, il generale contempla gli squadroni, gli ufficiali nervosi, i granatieri coperti dai loro berretti d’orso, gli elmi di rame rosso con l’aquila incoronata dalla piuma scarlatta. Le loro giubbe si alzano, si ergono. Risuonano le trombe. Gli aiutanti di campo scendono al galoppo distribuendo ordini».
Richiusi gli occhi.
«I corazzieri iniziano l’avanzata. I cavalieri, in un rintronare di speroni, passano dal trotto al galoppo, avanzano contratti sulle loro cavalcature, salendo e scendendo, scendendo e salendo, con tutto il vigore del corpo concentrato nella mano che tende la lancia, che vorrebbe allungarla, farla crescere, più di qualsiasi lancia dell’avversario. Lei si scostò, impose la mia schiena sul letto, tentò di montarmi sopra. Graffiando il sole con le loro lance, dividendo irrimediabilmente il giorno, lasciandosi dietro un polverone d’oro, il nemico galoppa, scendendo e salendo, salendo e scendendo, scendendo e salendo».
«La misi di schiena, le scostai i capelli dalle labbra, le morsi la nuca, cominciò a gemere. In un crepitio di lance, acciaio contro acciaio, vigore contro vigore, gioventù contro gioventù, cozzano le avanguardie. Uomini che un istante prima guardavano il sole, contemplano la notte senza occhi. Petti indomiti, cintole di ferro, cosce che ignorano la fatica, rotolano spezzati».
«La penetrai ancora di più. Saliva di sauri agonizzanti si frammischia a saliva di cavalieri agonizzanti. La stanza si riempì di gemiti di ussari falcidiati, di gambe mutilate, di ventri svuotati, di squadroni in disordine».
«Sulla vastità dei campi dove i vinti finivano i vincitori, si levarono le nostre grida di appena nati».

Dopo mesi di labbra, anni di fianchi, secoli di seni, millenni di gemiti ci avviluppammo in un lungo sonno.




«Dieci... nove... otto... Sei sempre più vigile
«Sette... sei... cinque... Ti senti straordinariamente bene
Quattro, tre... Ora sei quasi sveglia
Due... Uno...».
Il dottor Penna parlava. Parlava e mi fissava l'appuntamento per la prossima settimana.
Ma io pensavo ad altro.
Mi tornò in mente una vecchia storia zen.
Daiju fece visita al maestro Baso.
Baso domandò: «Che cosa cerchi?».
«L'Illuminazione», rispose Daiju.
«Tu hai la tua stanza del tesoro. Perché vai in giro a cercare?» domandò Baso.
Daiju chiese: «Dov'è la mia stanza del tesoro?».
Baso rispose: «Quello che stai domandando è la tua stanza del tesoro».
Daiju fu illuminato. Anche io.

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