lunedì 15 luglio 2013

Un regalo prezioso da un bambino palestinese: la sua moqlya

Il mio amico Walid
Lo so. La notizia è uscita qualche qualche giorno fa suscitando giustamente lo sdegno dei più. Ovviamente c'è stato pure chi, pur di fronte alle immagini,  ha negato la realtà nascondendo la testa sotto la sabbia facendo finta di non vedere o semplicemente ignorando quello sta facendo Israele nei Territori Occupati. Oggi, però, cercando una fotografia per un articolo, mi è capitato sotto mano l'album del viaggio in Palestina. E' stato un attimo ritrovare tra i volti di quei bambini che ho fotografato la faccia di Wadi'a Maswadeh che a cinque anni è stato fermato e trattenuto per due ore dai soldati israeliani per il solo fatto di aver tirato delle pietre. Per questo ho voluto scrivere.

Di piccoli Wadi'a ne ho conosciuti molti a Dheisheh e a Jayyous. Sono in gamba, studiano molto (specialmente l'inglese), fanno sport e sì, è vero, lanciano sassi al di là del filo spinato che circonda il campo profughi in cui sono costretti a vivere. Uno di questi bambini, Walid, mi ha regalato la sua moqlya, una fionda. Un regalo prezioso, costruito con le sue mani mettendo insieme dello spago e un pezzo di copertone. Ha provato anche ad insegnarmi come si usa, ma io sono stata incapace di lanciare la breccola raccolta da terra a più di mezzo metro. Il giorno della partenza dal suo campo mi ha raccomandato di nasconderla bene: se l'avessero trovata, mi disse, l'avrebbero considerata un'arma e io avrei passato i guai. Pensai che fosse una preoccupazione esagerata, ma lo stesso la usai come cinta dei pantaloni per evitare che al ceck point di Tel Aviv me la sequestrassero. Ci tenevo troppo per perderla. Visto il trattamento riservato dai soldati israeliani a Wadi'a, la preoccupazione del ragazzino palestinese di Jayyous, però non era così esagerata. Il lancio di pietre viene considerato un reato, ma non è un crimine far vivere ragazzini come Walid e  Wadi'a nelle condizioni che ho visto con i miei occhi.

In Palestina sono andata nell'aprile 2009 con la carovana di "Sport under the siege": è stato un viaggio incredibile che mi ha segnato profondamente. Qui di seguito ci sono le foto e il report di quelle giornate che ancora oggi, rileggendo, mi fa venire i brividi. 
"La strada che dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv porta al campo profughi di Dheisheh, a Betlemme, prima tappa della carovana di “Sport sotto l’assedio”, è costellata di chilometri di filo spinato, reti, muri di cemento. Il paesaggio desolato è interrotto da piccoli insediamenti arrampicati sulle alture brulle. Nei villaggi dei coloni le case sono basse (per rendere più rapidi i tempi di costruzione), hanno i tetti rossi spioventi. Pare sia per distinguerli, durante i bombardamenti dell’aviazione israeliana, dai tetti bianchi e piatti dei villaggi e dei campi profughi palestinesi. C’è come un’enorme trincea ritmata da tronchi di ulivo decapitati che affiorano dal terreno, ciò che resta di centinaia di alberi secolari. Vedere quei pezzi d’albero senza vita dà il senso della violenza dell’occupazione.
La nostra meta è l’Ibdaa cultural center, centro culturale nato nel 1994 che si trova all’ingresso di Dheisheh, uno dei 59 campi profughi nati nel ‘48: 12 mila persone costrette in mezzo chilometro quadrato. «Ibdaa» letteralmente vuol dire «creare qualcosa dal nulla». Ci spiegano: «Da sessant’anni il volere israeliano è che a Dheisheh non debba esserci nulla, per questo il centro si chiama Ibdaa». Il centro organizza nel campo l’ostello, il ristorante, la biblioteca, l’asiloper i bambini, un laboratorio di sartoria, l’ospedale, attività come danza, musica, teatro, e il comitato delle donne. Inoltre, con grande fatica, l’Ibdaa finanzia l’università, ogni anno, a cinquanta ragazzi di Dheisheh. Nel campo si procede in fila indiana, non c’è spazio, le case sono molto vicine l’una all’altra. Il nostro  accompagnatore, Jihad, ha 26 anni. «Qui è come averne 50», dice. Sui muri graffiti e murales lasciati da artisti di ogni parte del mondo, alcuni sono opera dei «carovanieri» che ci hanno preceduto quest’anno e negli anni passati. Ai murales si alternano le facce di giovanissimi ragazzi del campo uccisi dall’esercito israeliano, l’ultimo è stato crivellato da 500 colpi di mitra.

La prima giornata prevede il grande evento: la partita della nazionale under 21 palestinese contro l’improvvisata nazionale italiana di Sport sotto l’assedio, a seguire l’incontro tra le squadre femminili. Lo stadio di Al Ram, a Ramallah, è stato costruito dalla Fifa, la federazione calcistica mondiale, due anni fa. Qui si allena la nazionale palestinese, che durante l’«operazione Piombo fuso» ha perso due dei suoi giocatori migliori, uccisi a Gaza dalle bombe israeliane.
Per arrivare allo stadio non possiamo percorrere l’autostrada, riservata ai cittadini israeliani, che collega in venti minuti l’insediamento di coloni Maali Adumin con Gerusalemme. Noi, per raggiungere Ramallah a bordo di un autobus con la targa verde palestinese, abbiamo impiegato circa un’ora e mezza, lungo la strada tutta curve che passa dal «check point» di Abu Dis. Allo stadio però riceviamo un’accoglienza degna dei campioni del mondo, bandiere italiane e palestinesi sventolano ovunque. Sotto una gigantografia di Arafat c’è uno striscione di “Sport sotto l’assedio”: «Senza la vostra libertà non saremo mai liberi». Un momento di imbarazzo, prima del fischio di inizio, quando i ragazzi palestinesi con noi sugli spalti hanno provato a metterci in mano il tricolore per ascoltare gli inni nazionali. Finito quello palestinese (la squadra di casa con la mano sul cuore) è toccato a noi: sulle note dell’inno di Mameli nessuno sapeva cosa fare, all’improvviso si è alzato un pugno e da lì sulla curva italiana è partita una «ola» di pugni chiusi, ci è parso un compromesso accettabile. Il risultato sportivo invece è deludente: abbiamo perso le due partite 10 a 0 e 9 a 0, e in mondovisione.

Il 5 aprile la carovana si è divisa in tre gruppi che hanno raggiunto, scarpini da calcio ai piedi, diverse zone della West Bank, per disputare partite con le squadre locali e per iniziare i laboratori di fotografia, energie rinnovabili, musica e free software rivolti ai bambini e agli adolescenti, quelli che più soffrono una situazione in cui la guerra e l’occupazione sono la normalità. Dopo i saluti e un’abbondante colazione a base di humus e felafel, il mio gruppo si dirige verso Jayyous, nel distretto di Qalqilya, a pochi chilometri da Tel Aviv.
Ripercorriamo la strada del giorno prima, al «check point» di Abu Dis i militari trattengono la nostra guida palestinese, membro dell’associazione Stop the wall. Poi lo lasciano andare, ma Mohammed si dovrà presentare per un controllo nei giorni successivi. Lungo il percorso la guida ci spiega la situazione del villaggio: fino al 2002, Jayyous godeva di una economia florida, fatta di agricoltura e commercio anche con i vicini israeliani. Con la costruzione del muro, Jayyous ha perso buona parte dei campi coltivati, gli uliveti e i pozzi. Ora la disoccupazione è al 75 per cento. Da novembre scorso l’associazione “Stop the wall” organizza ogni venerdì una manifestazione contro il muro cui partecipa tutto il paese.

Il nostro arrivo nel villaggio è salutato da centinaia di bambini, ci corrono dietro fino al Charity Center, dove saremo ospitati nei quattro giorni successivi. è un centro di assistenza alla popolazione come ne esistono in altre città palestinesi. Al piano terra c’è la scuola per i bambini dai 4 ai 6 anni, che imparano arabo, matematica e inglese. Ogni mattina le voci dei bambini saranno la nostra sveglia, insieme al canto del muezzin. Ci sistemiamo in uno stanzone, 53 materassi e un unico bagno; nella fila per entrarci nasceranno grandi amicizie. Dopo le presentazioni e il pranzo, partiamo per le vie di Jayyous accompagnati dalla Banda della Murga, quella che anima i cortei romani con salti e balli al ritmo dei tamburi. Come sempre, decine di bambini ci seguono. Con loro raggiungiamo la parte alta del paese, da lì è ben visibile il muro di cinque chilometri e mezzo e il «gate north», sorvegliato dagli israeliani, che filtra l’accesso al 78 per cento delle terre coltivate. Per raggiungere i campi esistono due passaggi, aperti tre volte al giorno per un’ora, e un «terminal» aperto 12 ore al giorno, ma con controlli più rigorosi. Sul recinto-muro che circonda il paese spiccano placche di plastica numerate: se qualcuno tocca la rete, i sensori mandano un segnale alla centrale di controllo israeliana: i numeri servono ad identificare rapidamente la zona. Il pass per attraversare il muro è rilasciato a discrezione degli israeliani. Al momento è concesso – come ci hanno raccontato i ragazzi di Jayyous e come abbiamo verificato con i nostri occhi - solo a persone anziane. L’ultima volta, su cento richieste di pass ne è stata accettata solo una, fatta da una persona che vive a Dubai, nel Golfo.

Il giorno successivo saremmo voluti andare a Gaza, ma un fax israeliano ci ha fatto sapere, prima della partenza, che «nella Striscia di Gaza non c’è niente da vedere e nessuno da incontrare». Perciò restiamo a Jayyous. Con Muafaqk e Noor, studenti universitari e volontari del Charity Center, andiamo vedere i due «gates». Al di là del filo spinato la collina appare verde e lussureggiante; dal lato palestinese la terra è arida. A ridosso dell’orario di apertura del «gate north» arriva un contadino su un vecchio trattore. In perfetto inglese, l’uomo, rappresentante del Comitato in difesa della terra come la maggior parte dei contadini della zona, ci racconta le difficoltà di ottenere il pass: bisogna dimostrare di avere un campo, di non avere problemi con la sicurezza israeliana per attività politica o altro, di non avere in famiglia un «martire», e in quel caso la terra viene espropriata. Il permesso va rinnovato ogni tre o sei mesi, ogni volta con un periodo di attesa di un mese durante il quale il raccolto viene abbandonato. E comunque ottenere il pass non dà certezze: i soldati possono chiudere l’accesso per giorni, o semplicemente non farti passare.

È questo stato di costante incertezza, di assenza di regole, anche ingiuste, che rende ancora più precaria la vita di questa gente, spingendola all’esasperazione: «Sai quando esci di casa - raccontano - ma non sai quando arriverai al lavoro, al tuo campo da coltivare, all’ospedale o all’università».
I prodotti palestinesi non vengono venduti in Israele, i prodotti israeliani invadono i mercati palestinesi abbassando i prezzi. I pomodori si vendono a meno di un euro per 15 chili. «Nella stagione delle olive abbiamo bisogno di lavoratori, ma solo chi ha il pass può attraversare il confine», spiega ancora il vecchio sul trattore. Molte donne non vanno più nei campi per non subire l’umiliazione della perquisizione. L’aiuto arriva solo dagli «internazionali», e da qualche israeliano.

La sera del 6 aprile dall’unico internet point o via sms cominciano ad arrivare le notizie del terremoto in Abruzzo. Il giorno successivo tutti ci esprimono grande solidarietà e ci ringraziano di essere lì, nonostante la situazione in Italia. Ci guardiamo intorno, vediamo le case distrutte di Jayyous, proviamo a immaginare L’Aquila. 

Per le strade si vedono solo bambini, qualche adolescente, poche donne e praticamente nessuna ragazza. Conosciamo Husam, 21 anni, di cui tre passati in carcere, tre buchi di pallottola sul corpo. Lavora in una radio a Ramallah, ed è l’unico posto che ha il permesso di raggiungere quando esce dal villaggio. Si definisce un «throwing stones», tiratore di sassi. Si dichiara comunista, al collo ha un vistoso ciondolo con la falce e il martello, non va in moschea. Ci porta a vedere il paesaggio notturno dalla scuola, indica Tel Aviv e poi il mare, è da nove anni che non può andarci. Il panorama è a macchie di luce e buio, le zone illuminate sono insediamenti israeliani, quelle buie città palestinesi. Ci indica all’orizzonte il villaggio di Sofem, in Israele, dal quale il venerdì arriva qualche ragazzo israeliano per partecipare alla manifestazione.
Da novembre sono state arrestate 25 persone. Un mese e mezzo fa i soldati israeliani sono entrati in paese rastrellando a caso uomini e ragazzi per le case del villaggio, rinchiudendo 85 persone, bendate, per tre giorni nella scuola e infine procedendo a 13 arresti. Mentre siamo al campo sportivo, i soldati entrano di nuovo.
Il proiettile sparato sotto i nostri occhi
Questa volta sparano su ragazzini che probabilmente avevano tirato pietre verso il gate con la loro «moqlya», la fionda. I militari sparano proiettili di 2 centimetri di diametro, un sottilissimo strato di gomma riveste la sfera di piombo. Un ragazzino viene ferito.

Prima di lasciare Jayyous andiamo a Qalqilya. Anche qui l’economia era viva, gli israeliani venivano a comprare piante, fiori e altre produzioni locali. Con la costruzione del muro, nel 2002, si sono persi 7 mila ettari di terreno. Il settanta per cento dei residenti dipende dalla Carta dei rifugiati, che permette di accedere agli aiuti delle Nazioni unite per i beni di prima necessità. Qui, come a Jayyous, Hamas è il primo partito. Il muro impressiona per la sua altezza e imponenza e per il senso di oppressione che dà. Si sente il rumore della auto che percorrono l’autostrada israeliana, dall’altra parte.
Il viaggio è alla fine. Salutiamo i nostri amici Moafawq, Noor, Husam, Makmoud. Con loro cantiamo ancora una volta «Bella ciao», poi li vediamo sparire per le strade, con i nasi rossi da clown lasciati come ricordo dalla Banda della Murga.

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